Il mio viaggio a Tamandaré

Un posto lontano raggiunto per amore, il volo sul mare, poi la terribile scoperta ...

di BRUNELLA CAPUTO

È un. giorno di pioggia. Si parte in un giorno di pioggia? Non lo so, forse. Partire è sempre una fuga, spesso necessaria. Gli eventi negativi della vita ti possono travolgere, invadere, possono prendere il posto dei pensieri. E allora bisogna partire. La partenza riesce a sciogliere il groviglio di idee strane nella testa, sempre. È così anche adesso. Parto. Per dove? Per un posto lontano, oltre il mediterraneo, oltre l’oceano, al di là dell’equatore. Quel luogo lontano mi attira, entra nei miei pensieri la notte. Non nei sogni, nei pensieri. Dormo poco, la mia notte è fatta poco per i sogni e molto per i pensieri. Parto, forse per ritrovare il sonno in terre lontane. Penso che il sole caldo del giorno mi aiuti ad avere sonni tranquilli la notte. Forse.

Idee, pensieri, ipotesi, tentativi. Nulla di certo. Nulla mai. Lui nella testa, solo lui. Lo amo. Non ho mai amato nessuno così. Non ho mai amato prima. L’amore, quello vero, costringe alla fuga quando non puoi renderlo visibile al mondo. Quando non hai più forza per tenere tutto in un pensiero, fuggire è l’unico modo per rivestire di calma le tue angosce. Il tempo e la fuga sono i tuoi unici alleati. Scappi di notte, perché la notte rende tutto più nascosto. Di notte la luce non invade i pensieri. Il giorno assorbe tutto e non ti lascia spazio. Di notte gli occhi sono più aperti, per farsi strada nel buio. Vado dentro il buio. Esco la notte e lo affronto. In una notte d’autunno penso di andare, lontano, superando il grande mare, quello profondo, quello che di notte è di colore viola.

Una volta lo solcai con una enorme nave, tutta luci e colori. Fu un viaggio di quelli che lasciano il segno, da ricordare per sempre. Dentro si ballava e io fuori, ogni notte, a vedere il colore viola del mare spaccato in due dal palazzo galleggiante. E schiuma bianca ad entrare negli occhi, a rompere il viola. Penso che oltre il grande mare avrò pace, oltre il grande viola notturno troverò luce giusta per i miei pensieri. Forse arriveranno anche i sogni, la notte. Sogni belli, attenti al mio cuore ormai di colore viola. Un cuore deve essere rosso e pulsare con lo stesso interminabile ritmo. Quando diventa viola il suo ritmo è troppo lento, è quasi fermo. Lui nella testa, solo lui. Lo amo. Nel profondo dell’anima io lo amo. Scappo per non morire, per sopravvivere ad un insano pensiero, per non cedere al colore nero di un amore impossibile. Volo sul grande mare, verso sud. Arrivo in Brasile. Trovo il sole e il suo calore. Mi fermo in una città piccola, quasi rurale, poco conosciuta, dal nome indio. E di questa città scelgo un quartiere insano, cupo, solitario. Mi colpisce un cane, cammina lento sulla striscia gialla al centro della strada. Piove appena. Comincio a seguire il cane. Dietro una curva scompare, nella nebbia. Questa visione mi colpisce, scelgo questo posto per questo.

È una domenica, in un posto d’estate, con una strana nebbia. È mattino presto. Sono a Tamandaré. La cupezza di questo quartiere mi spinge a raccontare di giorno, ad abbandonare il colore viola della notte insonne. Ora devo raccontare. Non è stato urgente il racconto, non è venuto fuori subito. Ma ora è qui, pronto per la passeggiata, vestito con il suo abito migliore. E racconto al grande mare che ascolta senza stancarsi del suo movimento. Racconto, adesso che il mio cuore sta scoppiando, adesso che sento il bisogno urgente di dire. Racconto di lui, del mio amore, della sua indifferenza. Racconto della vergogna di stare nascosti senza nessuna ragione, del tradimento senza nessun valido motivo. Tamandaré inaspettatamente mi tira fuori il ricordo completo, quello che avevo rimosso. Tamandaré mi aiuta a capire che io devo ricordare non raccontare. E ricordo, adesso. Ricordo quella notte, di ritorno dal lavoro. Il buio, la pioggia, non avevo l’ombrello. Le chiavi cadute, il tempo perso per riprenderle in terra. E le luci accese in camera da letto, viste dalla strada. Che ci faceva in camera da letto prima che io arrivassi? Non lo faceva mai, mi aspettava in soggiorno. E il ricordo improvviso: non dovevo esserci a casa, dovevo restare fuori quella notte. E invece tornai, e lui non sapeva. Dimenticai di chiamarlo. Corsi su, aprii con l’urgenza dell’amore. Non mi aspettava, non mi sentì entrare. Troppi rumori in quella camera, con la luce che si vedeva dalla strada. Rumori d’amore. Rumori non solitari. E vidi quello che forse avrei dovuto vedere con gli occhi del cuore già da tempo, vidi lui nel nostro letto con un’altra donna. Il pensiero fu immediato. Il sacco con le mazze da golf lo lasciava sempre in corridoio. Il gesto seguì il pensiero solo pochi secondi dopo. E colpii. E li uccisi.

Lascio questo ricordo a Tamandaré. C’è uno strano vento, in questa mattina del sud del mondo, e una strana nebbia. Il grande mare ascolta, aiuta a ricordare.

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