LA MEMORIA

Il miele di Pesto dal sapore antico 

Racconto di Gatto ci fa scoprire le tradizioni

In questo periodo nelle cucine di tutte le case dei cilentani nonne, mamme e figlie apprendiste sono alle prese con la ricca e varia pasticceria natalizia: zeppole, struffoli, nocche, pastorelle, fagottini. E fila come oro il miele in abbondanza per soddisfare anche i palati più esigenti. Queste riflessioni me le ha suggerite la (ri) lettura di una prosa poetica straordinariamente bella di Alfonso Gatto, mio Amico e Maestro. Con lui parlo spesso, rileggendone poesie e prose. Mi è capitato anche in queste vacanze natalizie ed ho riletto, tra l’altro, le belle poesie dedicate al Cilento e la straordinaria pagina di prosa poetica dedicata a “Il miele di Pesto”. Gatto la scrisse quando, oltre mezzo secolo fa o giù di lì, dal ventre della terra della città magnogreca venne alla luce un’anfora ipogea colma di miele di circa 2600 anni fa. Riporto parte di quella pagina, qui di seguito, anche in omaggio ad un ingrediente, che, usato già dai Padri Greci, resta ancora oggi protagonista delle leccornie della pasticceria natalizia.
«Pur con qualche approssimazione geografica, qualche giornale ha dato notizia del miele di Paestum. Lo hanno trovato in un’anfora venuta alla luce durante nuovi scavi effettuati nella zona archeologica della città morta. Ridotto a poltiglia, ma riconoscibile, questo miele di 2600 anni fa, ci riporta l’odore e il sole di quella terra che è anche un pò nostra, meno blanda e meno addomesticata di quanto la lascino vedere i sofisticatori delle sue rose perdute. A questa notizia, il ricordo di Pesto nel torrido dell’estate - tra la montagna di Capaccio ed il mare verde allontanato dalle mura - resta sospeso in un ronzio solenne; i carretti di pomodori e dei meloni gialli dilungano nella dolcezza allappante della sete che si ripromette l’acqua, il balsamo del frutto addentato. I ragazzi, le lucertole, le serpi, le pietre hanno dentro lo stesso miele sepolto, un miele nero. I venditori di meloni zuccherini, dalla scorza verdissima e gialla, da Salerno a Napoli gridavano “melune ’e Pieste”. Tutta l'infanzia di noi ragazzi, laggiù, si tirava dietro l’interminabile controra di un caldo antico quanto il sole, e insieme il fresco d’una grotta sognata più che vista, lunare, ove stanno a ghiacciare boccioni di vino, uve, meloni. Ecco perché la notizia non ci ha sorpreso: di queste vene sotterranee, dolcissime e funebri, di queste ceneri son fatti laggiù montagne e arenili. Ove la terra tocca la sua violenza fa tutto buono e quasi si insudicia della sua ricchezza. Sono mai esistite le rose di Paestum? Saranno esistite -rispondiamo - se la storia ne ha tramandato il ricordo e se oggi i curatori della bellezza antica cercano in tutti i modi di ravvivarne il seme. Noi preferiamo dimenticarle, lasciando che rimanga a fiorire solo l’asfodelo, il fiore delle anime vaganti e dei morti. Vivissime e effimere, le rose non si addicono a questo lutto segreto e fermentante alla luce che è nelle cose. Si addicono i pomodori, si addicono i meloni gialli e verdi e gli uomini vestiti a lutto nel bianco delle strade maestre, le cornacchie che a sera calano sui templi, sugli scheletri spolpati della terra antica. Rimandiamo alle bellissime pagine che Riccardo Bacchelli ha scritto su Paestum. Gli daranno la realtà di questo paesaggio in cui è presente, più che in ogni altro, il Genio del luogo, la misura di un mistero che dà i brividi addosso nel lungo presentimento della notte. A noi, quasi indigeni di Pesto, il sapore di quel miele ritrovato dopo 2600 anni è nella bocca, lo abbiamo succhiato al petto di nostra madre nelle lunghe controre d’estate, l’abbiamo sentito formarsi nella sua dolce grana d’incenso da quel ronzio solenne che tiene la pianura malarica. Nonostante questo abbiamo vissuto e viviamo, impreparati, improvvisi, come nati dal nulla. Ma negli occhi balena a volte il lustro della ferocia. Così vedemmo correre un giorno, quasi inebriati da un invisibile saccheggio, i ragazzi scalzi di Pesto. Mulinavano con i fantasmi, abbattevano le siepi di quel giardino di memorie pur di ritrovare, impiccata a una canna, la gialla bandiera dei padri».
Questo lo scritto straordinario di Gatto, in cui mi ritrovo con cuore, anima e pensieri, non solo per sintonia di “sentire” poetico con l’Amico e Maestro, ma anche con memoria fisica e psicologica di vissuto autobiografico, e che forse molti non conoscono. Ho sentito il bisogno di sottoporlo all’attenzione di tutti i miei conterranei Capaccesi/Pestani e del Cilento tutto perché riscoprano ed esaltino l’importanza della cultura per fecondare di sviluppo tutto il territorio di Capaccio/Paestum e della sua vasta kora che mi ha dato i natali, territori questi che potrebbero e, secondo me, dovrebbero affondare la riflessione nella storia del passato per esaltare il presente e costruire il futuro.
E’ l’augurio caldo e sincero che faccio a me stesso e a tutti loro per l’anno nuovo.
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