La Pietà di Tommaso De Vivo

ARTE

Il capolavoro di Sant’Egidio del Monte Albino

La bellezza della “Pietà” di Tommaso De Vivo

A Sant’Egidio del Monte Albino, nella chiesa di Santa Maria Maddalena in Armillis, si conserva un interessante quadro, raffigurante una “Pietà”. È opera del pittore Tommaso De Vivo (Orta di Atella 1790-Napoli 1884), un artista che ha vissuto l’età napoleonica con il neoclassicismo allora imperante, e ha visto anche il compiersi dell’unità d’Italia, attraversando la pittura italiana dell’Ottocento quasi per intero.
Trasferitosi a Napoli, proveniente dalla provincia casertana, il pittore fu allievo dell’Accademia delle Belle Arti e fin dall’età adolescenziale, appena 14enne, si specializzò nelle copie dei dipinti del Real Museo, che poi vendeva ai visitatori. La sua fu una formazione di bravo e fine copista, a diretto contatto con i grandi capolavori conservati nel museo napoletano. Vista la sua bravura, il giovane pittore fu presentato dal marchese Luigi de’ Medici al Duca di Calabria che gli assegnò una somma di ventiquattro ducati mensili per il suo perfezionamento artistico a Roma, dove si trasferì nel 1821. E il dipinto di Sant’Egidio del monte Albino è risalente al 1821, proprio nel periodo in cui Tommaso De Vivo, era a Roma per perfezionare i suoi studi pittorici. Da Roma, poi, inviò a Napoli numerosi lavori e studi. Nella “Città Eterna” frequentò lo studio del pittore Vincenzo Camuccini. Nel 1824 inviò da Roma una copia della celeberrima “Deposizione di Cristo” di Caravaggio, tuttora nella Pinacoteca Vaticana. La copia dell’opera di Caravaggio fu poi collocata nella basilica neoclassica di San Francesco di Paola in Piazza del Plebiscito a Napoli. Tommaso De Vivo fu artista che ebbe diverse commissioni importanti, come per esempio i tondi su fondo oro raffiguranti alcuni Santi e Sante al di sopra degli archi della navata centrale della chiesa napoletana di S. Domenico Maggiore, al tempo dei restauri messi in cantiere dal Travaglini, tra il 1852 e il 1853. Suoi dipinti sono conservati anche nella Reggia di Caserta. Il tema della “Pietà” è antico, di gruppi statuari e di pitture con tale soggetto ce ne sono tantissime, a partire dalla più celebre “Pietà” che è quella di Michelangelo Buonarroti nella Basilica di S. Pietro in Vaticano. Certamente nel Salernitano la più importante è quella rappresentata dal gruppo in legno policromato realizzata da Giacomo Colombo tra il 1696 e il 1703 a Napoli, che si conserva nella Collegiata di S. Maria della Pietà in Eboli, che ha avuto anche una buona fortuna iconografica e repliche più o meno vicine all’originale. Ma mi pare che il dipinto del De Vivo sia iconograficamente vicino anche a una “Pietà” dipinta da Giuseppe Ghezzi e conservata a Roma, nella chiesa di San Salvatore in Lauro, e forse aveva presente anche quella, oggi conservata nel Museo di Capodimonte, dipinta da Annibale Carracci. D’altra parte, sia pur con diverse varianti, il soggetto iconografico religioso resta il medesimo e mostra il dolore di Maria che sorregge il corpo esanime di Cristo. Dal punto di vista strettamente pittorico, cromatico e stilistico, il dipinto di Tommaso De Vivo nella chiesa di Sant’Egidio del Monte Albino risente certamente del gusto neoclassico allora imperante, e non poteva essere altrimenti, ma anche con echi a un più antico naturalismo seicentesco che fa di questo dipinto un capolavoro di citazioni iconografiche e coloristiche, con un tono piuttosto aulico e teatrale, come nella tradizione devozionale propria della cultura del periodo post-tridentino in età barocca e tardo barocca. E lo confermano i gesti eloquenti della Madonna che con le mani intende mostrare il corpo di Cristo all’Umanità, con chiaro intento didascalico-devozionale, legato al pathos del momento. Così anche la figura del frate, sulla destra, con le mani giunte in adorazione e preghiera di fronte al corpo di Gesù, rafforza la voluta e cosciente ripresa di modelli che risalgono fino alla tradizione rinascimentale. Tommaso De Vivo resta un pittore importante, da riconsiderare nel contesto della pittura dell’Ottocento.
Gerardo Pecci
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