I gravi pericoli della smorfia

L’origine dei numeri e i rischi del gioco nel libro scritto da Giustino Rumeo nel 1866

Il barone Michele Zezza, scrive nel 1835 “La smorfia ossia Il nuovo metodo per perdere denaro, e cervello con maggior sicurezza al gioco del lotto”, pubblicata a Napoli dai torchi della Società Filomatica. A presentazione del suo sarcastico libello avverte: “Signori Cabalisti, a voi: se volete arricchirvi, bisogna che facciate prima arricchire un vostro benefattore: comprate dunque questa Smorfia a pronto contante. Qui troverete la vera fortuna per poter vincere facilissimamente in tutt’ i regni dello universo, in tutt’ i climi, ed in tutte le stagioni, purché però sappiate indovinare i numeri prima, non dopo di estrarsi. Vi presento …alcune cabalette in versi, che non sono comprese dall’autore, ma lo saranno da voi dopo uscita l’estrazione, e l’interpretazioni de’ sogni, quando non andate a letto ubbriachi...”. È una “smorfia” ironica, una “anti-smorfia”, la vena satirica di un ben pasciuto signore della nobiltà napoletana, autore di opere comiche per il S. Carlino, che non aveva certo necessità di affidare le sue fortune all’iniqua e aleatoria sfida dell’urna.

Un libro dunque per i suoi pari, per letterati, e del resto già la cultura scientifica del ’700, vagliando matematicamente le reali probabilità di vincita, aveva avvertito che “...il gioco del lotto è sempre a danno del giocatore” come scriveva il matematico Vito Caravelli (Opuscoli Matematici, Napoli, Raimondi, 1789, pag.37 ). Ma tra la misera umanità che impinguava i vicoli e le strade di Napoli circolava (e circola), incrollabile da secoli, quel miraggio del riscatto individuale che Matilde Serao chiamò “l’acquavite di Napoli”. Ci capita ora tra le mani un raro esemplare di “smorfia”, stavolta autentica: Giustino Rumeo, “Nuova Smorfia del giuoco del lotto”, Napoli, Chiurazzi, 1866.

Un esemplare glossato, annotato e interlineato con incerta grafia, e insomma vissuto, passato per le mani di chissà quanti lettori alla ricerca di una sorte ambita: estratto, ambo, terno, quaterna…La tradizione, inizialmente orale, della Smorfia dalla seconda metà del settecento è affiancata da un buon numero di edizioni che, come questa di cui parliamo, utilizzano per gli analfabeti figure in xilografia abbinate ai numeri. La fortuna editoriale della smorfia è legata quindi alla sua funzione “manualistica”, e in tante case modeste era forse l’unico libro presente, al massimo accostato al “Guerrin Meschino” e ai “ Reali di Francia”. Anche se in passato (e crediamo ancora oggi) non furono poche le famiglie dell’alta e media borghesia a cadere in rovina a causa del gioco, gli introiti maggiori per il Regio Lotto furono (e lo sono per l’erario repubblicano) apportati dal popolo minuto, a partire per la città di Napoli dal 1520, data della prima riffa o beneficiata (’a bbonafficiata) appaltata dal governo vicereale. Quelle prime forme di lotteria erano destinate, in parte, a finanziare il maritaggio di ragazze povere al cui nome erano abbinati i numeri da estrarsi. Un secolo dopo (1682) prende forma anche nel viceregno napoletano il gioco del lotto, sugli esempi di Genova e Venezia, dove i numeri erano abbinati alle candidature dei Serenissimi senatori.

A Napoli più prosaicamente ed a giovamento delle dissestate finanze di Spagna, venivano estratti da due bambini, in tre o quattro occasioni annuali, cinque numeri da 1 a 90: ai possessori delle “cartelle” vincenti erano assegnati premi in oro, gioie o argento lavorato. Sull’evoluzione del lotto e del gioco d’azzardo a Napoli dal ’500 ai primi decenni dell’800, per chi voglia approfondire l’argomento, suggeriamo i saggi di Giuseppe Ceci in “Archivio Storico per le Provincie Napoletane”, vol. XXII (1897) pag. 241-254, e vol. XXIII (1898), pag. 386-398, e il libro di Franco Strazzullo “Il gioco d’azzardo e il lotto a Napoli”, Liguori editore (Napoli 1987). Torniamo al vademecum di Giustino Rumeo che preliminarmente mette sull’avviso il lettore con una quartina di autotutela: A buje che lo mio libro v’accattate/ Sapitevenne buono approfittare/ Ca se perdite e po mme jastemmate/ Na jonta d’autre ciento ve stò a fare.

Sistemata la questione con i perdenti rancorosi si passa alla lista generale delle corrispondenze tra numero e cosa, e qui si può capire quanto, all’indomani dell’unità (ma fino al ’900 inoltrato) i meridionali, in massima parte, fossero, dal punto di vista della lingua nazionale, “stranieri in patria” per usare un’efficace figura di Tullio De Mauro, e perciò Rumeo affianca a quasi ogni lemma il termine dialettale associato e più o meno appropriato: diarrea, (cacarella ) - facchino, (vastaso) - Letamaio, (monnezzaro)- darsena, (tarcenale) - tignoso, (zelluso), e così via. Seguono: la lista dei nomi di persona, degli animali, delle città e paesi del vecchio regno (Salerno fa 44), le xilografie della Smorfia Toscana, dove la fortuna fa 90 (che a Napoli è la paura), la spiegazione della Figura Pentagona e del Rovere d’oro, e poi giorni buoni e cattivi della settimana, il valore dei sogni nei giorni della fase lunare, i proverbi e i numeri simpatici. Lo scritto dal punto di vista demologico è ricco di spunti d’indagine, avendo esso l’ origine nella tradizione magico-cabalistica rinascimentale di registri e lunari popolari, (Regiomontanus, Nostradamus). Ad esempio le edizioni sette-ottocentesche della Smorfia napoletana o del Barbanera hanno il loro prototipo nello “Almanacco Perpetuo” (Napoli,1593, presso Giovanni Iacopo Carlino e Paci), opera del cosentino Rutilio Benincasa (1555-1626), a metà tra l’astronomo e lo stregone. La seconda edizione dell’Almanacco, adattato nel testo dal tipografo-editore napoletano Ottavio Beltrano, anch’egli di origini calabresi, è stampata a Napoli nel 1647. L’Almanacco di Benincasa - come la Smorfia o il Barbanera -costituiscono una plurisecolare tradizione editoriale, e sono ancora oggi ristampate, per il gusto effimero di chi cerca la chiave per predire gli eventi o una sorte benevola nel gioco del lotto. Un’ultima nota bibliografica, per una lettura storica e antropologica dei comportamenti sociali legati al gioco, riguarda un testo interessante e relativamente recente di Giuseppe Imbucci: “Il Gioco”, Venezia , Marsilio, 1997.

Alessio De Dominicis

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