Gatto e la poesia re-esistente Passione e impegno civile

“Il capo sulla neve”: negli orrori della morte, la tentazione di esistere L’intellettuale negli anni del Secondo Risorgimento tra Pasolini e Quasimodo

di BARBARA CANGIANO

Le parole, il cuore, la poesia, sono re-esistenti. Perchè le stragi, gli orrori, i morti, il sangue ed i lutti, non sono solo «una durezza che non si scioglierà mai», ma il principio di uno «scontro definitivo con la nostra difficoltà di essere, cioè di esistere veramente». In tal senso, «la resistenza è appena cominciata e la liberazione è nelle nostre mani di giustizieri o di suicidi», per «incominciare a riparare in questa terra al dolore degli uomini». 1947: Alfonso Gatto pubblica “Il capo sulla neve - Liriche della Resistenza”, ridato alle stampe nel marzo del 2012 dalla Fondazione salernitana con la prefazione di Andrea Camilleri, un saggio di Massimo Bontempelli e un breve scritto di Italo Calvino. A ventiquattro ore di distanza dalla rievocazione dei diciotto mesi che segnarono il Secondo Risorgimento (settembre 1943 - maggio 1945) «i partigiani con le stelle rosse» (Hanno sparato contro il sole), «i morti risonanti ai troni dei barbari promessi a questa vita» (Fine), che alla città «rimane guardare e illividire sotto il cielo» (Hanno sparato a mezzanotte), i carnefici che rimasero «vivi davanti ai morti» (Per i martiri di piazzale Loreto), i giorni «nell’ignoto mattino ove a svegliarci era il terrore d’esser rimasti soli» (Anniversario) riaffiorano dalle pagine come pietre scagliate contro chi non vuole sapere e non vuole ricordare. Una poesia arrabbiata, scrisse Calvino a Gatto, «di un arrabbiamento che è qualità poetica» di un uomo volto prima ancora che al foglio bianco, ai contadini, agli operai, ai militanti (nel 1936 fu incarcerato a San Vittore per aver ospitato l’amico Guglielmo Perice, tornato da Parigi con materiale di propaganda antifascista). Proprio per questo, Gatto è lontanissimo da quei «sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata» di calviniana memoria. Rileggendo la prefazione del 1964 al romanzo “I sentieri dei nidi di ragno”, una delle pagine più dense sull’esperienza partigiana e sulla sua conseguente espressione letteraria, il poeta salernitano, con le sue liriche, potrebbe rappresentare l’equivalente di Beppe Fenoglio col suo “Una questione privata”. Badogliano e acomunista, tenuto ai margini dagli intellettuali dell’epoca, Fenoglio è stato, a dire di Calvino, l’unico scrittore capace di entrare nel cuore della Resistenza. Lo stesso potrebbe dirsi per Gatto, così distante da una aulicità che non era possibile, dalle cetre appese agli alberi in segno di lutto e dai piedi stranieri. «Era qualcosa in più: era la natura umana offesa», scrive l’autore di “La sposa bambina”, con la scarnificazione di una lingua sopravvissuta a una fase in cui «tutto esisteva con un realismo quasi magnetico». Quel lampo folgorò pure Camilleri, che citando «i dolori del mondo offesi», ricorda nella prefazione le preconizzazioni di Vittorini nella sua “Conversazione in Sicilia”. Perchè c’è la luce nel suo «tutto quel giorno ruppe nella vita con la piena del sangue, nell’azzurro, il rosso palpitò come una gola» (25 Aprile). Quella stessa luce che schiaffeggia nella Resistenza di Pasolini («fu stile tutta luce, memorabile coscienza di sole. Non potè mai sfiorire, neanche per un istante, neanche quando l’Europa tremò nella più morta vigilia») a cui Gatto fu profondamente legato, al punto da vestire i panni di attore in due dei suoi film, Il Vangelo secondo Matteo e Teorema, dopo l’incontro durante il suo Viaggio per l’Italia all’insegna dell’Unità. Ma c’è anche molto Pavese. Lo scrittore morto suicida che nel ’35 s’invaghì della «donna dalla voce rauca», al cui fianco militò nella lotta al fascismo, focalizzò il suo interesse su quello che Fortini ha battezzato il “problema della memoria attraverso la presenza dei morti”. Un tema questo, che ricorre fortemente in Gatto, come in una partitura inconsapevolmente scritta a quattro mani: basti guardare come in uno specchio, I morti di piazzale Loreto con l’anonimo ragazzo che cade sulla neve di Gatto e colui che affronta la morte restando come un cencio a insanguinare l’avida terra (Tu non sai le colline). E ancora, la Resistenza delle madri, o più in generale delle donne, che fa da collante e fa bruciare le parole del poeta salernitano, come quelle di Quasimodo che, nel momento del pentimento per non essere intervenuto ad opporsi al fascismo, fende la carta con «all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo» (Alle fronde dei salici). Un grido disperato che riecheggia nel più schierato ed engagè Gatto e soprattutto nel suo «pianto delle mamme annerite sulla neve accanto ai figli uccisi» (25 Aprile). Donne ferite due volte. Nella vita propria e in quella data. Nella libertà e nella tenacia. «Perchè la donna non è cielo, è terra, carne di terra che non vuole guerra». Le parole solo di Eduardo Sanguineti (a Salerno ha scritto una pagina preziosa della letteratura e dell’accademia ed è stato insignito del premio Gatto per la raccolta Mikrokosmos) che così celebra la Resistenza “femmina” con la sua “Ballata delle donne”.

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