l'editoriale

False promesse della politica e toghe in agguato

La politica non è la rete, dietro la Raggi il nulla ed emerge drammaticamente la crisi della classe dirigente

L’ennesimo scandalo-non scandalo del Campidoglio colpisce non tanto per le accuse-scuse che investono un potere costruito sulla simil-rappresentanza della rete e sull’evidenza del vuoto, ma per la crisi della classe dirigente che emerge drammaticamente. L’Italia non gira perché politica, imprenditoria, finanza, burocrazia convivono ormai in una palude nella quale hanno eletto il proprio habitat. E Roma rappresenta la sintesi di questa mutazione istituzionale, ma soprattutto il luogo della falsa promessa smascherata. Al vertice della vita pubblica della Capitale si è insediato, infatti, il movimento che aveva edificato la sua identità sulla aspirazione collettiva di cambiare la storia del paese. Lì invece si è verificato, forse proprio a causa della sostanziale a-politicità dei comunicatori giulivamente al vertice, un recupero di spezzoni dei peggiori vecchi poteri, abilissimi nel conservare le chiavi dello scrigno municipale. Essi sono stati pre-selezionati, con cura doviziosa: vecchi arnesi del ceto dirigenziale, zarine del ciclo avventuroso dei rifiuti, quarte file dell’affarismo politico da retrobottega.

E, poi, sono stati ammessi, dopo un passaggio nel lavacro pentastellato, nella sala macchina del presunto nuovo corso, dalla quale, peraltro, non erano mai usciti. Se il continuismo italico intendeva rivivere il brivido della rinascita, occorre andare a Roma, guardarli in faccia quei signori, e la prova della rinascita c’è tutta, inconfutabile. Non occorre nemmeno che parlino. Ieri, sul Corriere, Sergio Rizzo evidenziava, a margine di storie sconcertanti, il fallimento assoluto del metodo di selezione della rete.

Il problema, però, non è soltanto quello delle immagini e del pensiero deboli che popolano l’attuale palcoscenico istituzionale. In questo quadro instabile, si fronteggiano in un epico rodeo gli ultimi malinconici detentori del potere, i dimessi esclusi e gli speranzosi includibili: un confronto-scontro tutto interno al ceto politico, insediato in una bicocca issata su vette vertiginose e circondata dall’immenso vuoto della incomunicabilità. Lontano dal fortino, ristagna il silenzio delle città, ormai avvilite e scosse per la ricaduta degli errori politici sulle esili economie domestiche. Il vuoto che circonda il potere, purtroppo, stanno tentando di colmarlo i magistrati, anch’essi per rivivere un improbabile e inattuale sogno. Speriamo non accada.

L’altro giorno abbiamo pubblicato la notizia delle dimissioni del capo del settore manutenzione del Comune di Salerno, dove sono in molti ad avere paura di firmare atti e documenti, anche a causa di quotidiane visite di investigatori per indagini complicate, alcune partite da lontano, ma in genere senza che sfocino mai, in questa città, in esiti giudiziari apprezzabili o che reggano alla prova del dibattimento. La paura di firmare atti o la fuga dalle proprie responsabilità da parte di qualcuno permangono, però, e questi sono segnali gravissimi. Comincia a mancare la capacità di resistere nel proprio ruolo. Così allo smarrito cittadino, in assenza di attività istituzionali rilevanti, accade che lo sguardo si polarizzi sulle indagini che, d’un tratto, si fermano, diventano quiescenti, magari in qualche caso e inopinatamente s’impennano. L’opinione pubblica matura così convinzioni e giudizi, fondandoli sul clamore di atti investigativi preliminari e la democrazia continua ad alimentarsi di emozioni superficiali. Crisi di classe dirigente anche qui? Forse. Esiste, però, una differenza tra Salerno e Roma. Da noi le tradizioni democratiche, spesso violate da periodi oscuri, possono rivivere alle semplici condizioni di dissentire e partecipare; ed è un obiettivo realizzabile con il solo ingrediente della volontà di agire. A Roma, e ovunque i palcoscenici diventino troppo ampi, contaminati da una comunicazione che surroga la politica con l’abulica mania dei clic, è difficile immaginare un ritorno alla civitas con le sue regole e i suoi costumi. La democrazia, nei luoghi-scenario, è infatti diventata un film o un blog, quando invece essa costituisce la vita stessa di una comunità. E la vita viene prima di quegli invasivi e frastornanti mezzi, come i blog, che vorrebbero sostituire i valori e che, talvolta, sono solo degli accidenti della storia o della bruta tecnologia.

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