Costume

Ecco come i divi finiscono nel salotto di casa

Dal cinema al boom di rotocalchi e magazine. Domani gratis con "La Città" c'è "Mio"

SALERNO. Il ciclone affonda le sue radici negli anni Venti-Trenta, quando la storia e le storie dei divi d’oltreoceano entrano nelle case degli italiani. In sedici pagine di gossip, cineromanzi e foto sagomate dallo Studio System, quegli «ideali inimitabili e al tempo stesso modelli imitabili» codificati da Edgar Morin nel suo “Le star”, fecero il loro ingresso in un’immaginario pronto ad arricchirsi di nuove architetture simboliche collettive. «Il pubblico voleva delle star. Io lo sapevo; bisognava interessarlo: per questo dargli delle star da idolatrare. Perché il divo tocca direttamente il pubblico. Il novanta per cento delle persone va al cinema per vedere le loro vedette preferite, gli altri ci vanno per accompagnarli», sosteneva Carl Leammle, presidente della Universal.

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Domani gratis con il nostro quotidiano un magazine dedicato al mondo della televisione (IL SERVIZIO)

Passato il diluvio del fascismo, con la sua propaganda di regime e la chiusura netta con gli States, sua maestà il rotocalco si rialza in piedi, diventando, in alcuni casi, preziosa vetrina per intellettuali moltiplicati e irriverenti, come Cesare Zavattini che sulle colonne di “Cinema illustrazione” si inventò inviato a Hollywood, miscelando surrealismo padano e poliedrica creatività, con cui si appiccicò addosso l’appellativo di matto. “Hollywood”, “Novelle Film”, “Bis”, “Noi Divi”, “Bonjour Madame”, “Cineconfidenze”, “Star”, “Cineromanzo per tutti”, “Cineromanzo gigante”, solo per citarne alcuni, divennero presto la lente di ingrandimento attraverso cui scrutare divi e dive, percepiti, spiega Morin, come «superumani nel ruolo che impersonano, umani nell’esistenza privata che vivono»: Rizzoli e Vitagliano ci avevano visto giusto, cavalcando gli anni del dopoguerra e del boom economico in technicolor, tra retroscena pruriginosi, vademecum per aspiranti spose, prontuari di bon ton e glossari di make up.

Nel frattempo, a ricollocare il loisir in ambito familiare, per la prima volta dall’epoca delle corti rinascimentali, ricordano Giorgio Simonelli ed Elena Colombo nel loro saggio sulla storia della tv, era arrivata una scatola di immagini e suoni e volti e storie, capace di svolgere la funzione affabulatoria attraverso un flusso sempre meno interrotto di informazioni ibride. E con lei, puntuali, le sue star, quelle fatte in casa e quelle pronte a zigzagare dal grande al piccolo schermo per rendere più brillante la propria aura. Per settant’anni, il Radiocorriere, l’organo ufficiale della Rai dal 1925 al 1995, oltre a sfornare palinsesti, ha raccontato, con sobrietà e precisione, il davanti e il dietro le quinte di un mondo seducente, prolungando nel tempo l’esperienza effimera dell’ascolto.

Intorno all’house organ, non ha subìto mai brusche interruzioni il proliferare di pagine e pagine – quasi uno strumento storiografico – che hanno raccontato e raccontano stili, culture e rivoluzioni culturali, in quel perimetro ampio ed eterogeneo, come lo è tutta la cultura pop, dove potersi sedere, tirare il fiato, sorridere, spulciando, spesso, nelle pieghe dell’altrui esistenza. Niente di cui scandalizzarsi. Niente di nuovo soprattutto: già nei Carmina Triumphalia un gruppo di militari romani stretti intorno al fuoco, attraversava la notte ridendo delle scappatelle dell’imperatore Traiano. Lo sostiene anche l’antropologo Robin Dunbar. Il pettegolezzo è sempre stato un mezzo di coinvolgimento e contatto reciproco essenziale per la vita sociale dell’uomo. Il primo a capirlo fu, nel 1924, Walter Winchell, seguito nel 1938 da Hedda Hopper, con la sua rubrica mondana sul Los Angeles Times. Di lì ai contemporanei talk e blog, il caleidoscopio dell’informazione che strizza l’occhio al privato-privatissimo, è stracolmo. Perché il gossip, quello legato al dorato mondo delle star, le rende più umane.

I televisivi piacciono proprio per questo. Aiutano a orientarsi in quello che Gianfranco Bettetini definisce il flusso fantasmatico dei palinsesti: aprono uno squarcio in universi lontani, modellano l’alta moda in pret a porter, rendono gourmet la cucina di tutti i giorni e protagoniste le storie, perfino quelle della porta accanto. Con leggerezza, ironia, brio. “Mio”, il settimanale diretto da Franco Bonera, da domani in abbinata con il nostro quotidiano, non fa eccezione. Anzi. Sa parlare a tutta la famiglia, sfruttando la tv e i suoi divi come griglia per rileggere il tempo della moda e dei social, quello dei sentimenti e dell’informazione, valorizzando storie. Tutte quelle che lo meritano.

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