CARTA GIALLA

E il vescovo cacciò le donnine

Nel ’700 monsignor Spinola ordinò di allontanarle dalle case vicino la chiesa di S. Benedetto

La volta passata abbiamo trattato dell’occupazione militare alleata, cominciata a Salerno nel settembre 1943 e degli avvisi espliciti, dell’Alto Comando alle proprie truppe in libera uscita, a non frequentare determinate zone delle città occupate, pena la propria incolumità o il rischio di contrarre malattie veneree. Una testimonianza materiale di quelle zone bandite e marchiate a fuoco permane tutt’ora a Salerno, su una parete della rampa che da via S. Michele introduce a quel che resta di Castel Terracena, l’antica residenza dei principi normanni, per poi sboccare sulla Piazzetta Cerenza, nel quartiere di S. Giovanniello. Questa testimonianza è una semplice scritta residua tra le tante che furono tracciate sui muri del centro storico salernitano, ma soprattutto di quello napoletano, avvertimenti per tener lontani i soldati dal contrabbando e altri traffici illeciti, da prostitute e soggetti poco raccomandabili. Le formule usate per la segnalazione, a vernice nera, erano “off limits” o “out of bounds”, entrambe con l’analogo significato di zona interdetta, fuori dai limiti. La scritta “out of bounds”, rimasta perfettamente leggibile su quel muro salernitano fino a un decennio fa e recentemente restaurata, ci rimanda per qualche analogia a una segnalazione curiale e una lapide di due secoli prima, affissa in quei pressi, in conseguenza della presenza in zona di persone di malaffare, che dimoravano nei caseggiati addossati ai resti di quello che fu il monastero di S. Benedetto.

Siamo nel cuore del centro antico di Salerno, sul tratto meridionale del pianoro dell’Ortomagno, a pochi passi da Castel Terracena e le absidi del Duomo. Nei primi decenni del Settecento il quadriportico che introduceva alla chiesa e all’antico monastero di S. Benedetto aveva già subito crolli, demolizioni e trasformazioni varie e la parte meridionale di quell’atrio (quella occupata oggi dal Museo Provinciale) era stata trasformata in abitazioni. Restavano comunque luogo sacro quelle case, pertinenza del monastero e, sotto la giurisdizione della curia salernitana, godevano di taluni privilegi, come quello dell’asilo ecclesiastico, ovvero la possibilità, per una persona che vi dimorasse o vi si rifugiasse, di ottenere protezione giuridica e immunità dalle leggi statali. Nel tempo però, all’interno di quelle case che i monaci davano in affitto, avevano preso a darsi convegno e soggiorno dei soggetti dediti ad attività non proprio adeguate all’atrio di una chiesa: «Avanti la Chiesa di questo Monistero di San Benedetto (...) ci è un atrio circondato di abitazioni che da due lati attaccano con detta Chiesa, e per sotto ai due archi dal una al altra parte si da I’ adito ed esito di via pubblica; con tutto ciò sempre dette abitazioni hanno goduto e godono I’ immunità locale; ed affittandosi ad uso d’alberghi, e dove stanno donne di male odore, viene ad essere un postribolo, e richiamo de dissoluti, quali sono Ii facinorosi che ci confuggono per godere l’immunita, e più tosto la libertà scandalosa». Così scriveva l’arcivescovo salernitano Fabrizio di Capua al cardinale Spinola della S. Congregazione delle Immunità Ecclesiastiche nel maggio 1735, e prendendo atto dello scandalo propose che venisse abolito il privilegio di immunità, ovvero che il cardinale Spinola desse ordine all’abate di S. Benedetto «di non affittarsi dette abitazioni a donne scandalose», mettendo fine a quelle oltraggiose attività davanti al luogo sacro, ma senza perdere il «commodo» della immunità. Notizia di questa vicenda fu resa nota agli studiosi da Leopoldo Cassese, infaticabile ricercatore di documenti sulla storia urbana di Salerno e della sua provincia, attraverso la lettura del fascicolo intitolato “Atti per la profanazione dell’atrio della Badia di S. Benedetto”, conservato nell’Archivio di Stato di Salerno da lui diretto, pubblicandone poi ampi stralci sulla rivista “Il Picentino” (n. 4 - Dicembre 1959) col titolo “Un angolo dell’antica Salerno”.

Ci informa Cassese nel suo scritto che, dando seguito al parere dell’arcivescovo salernitano, il cardinale Spinola il 13 agosto comunicò a questi «il rescritto delia S. Congregazione delle Immunità Ecclesiastiche, con il quale fu abolito il diritto di asilo nel predetto atrio e fu ordinato di provvedere a che esso non avesse comunicazione alcuna con la Chiesa e il Monastero, e di fare affiggere in una parte esteriore la più visibile di quel sito una lapide con tal dichiarazione». Oltre alle prostitute esercitanti la loro professione nelle case suddette, nell’atrio davanti alla chiesa si erano rifugiati per asilo anche due banditi, di cui si resero noti i nomi: Benedetto Giordano e Luca Sperandeo. A costoro fu fatta ingiunzione di sloggiare entro tre giorni da quel sito, tuttavia, per coerenza e continuità del privilegio stabilito, fu assicurato dalle autorità ecclesiastiche che essi banditi avrebbero potuto godere di analogo diritto d’asilo in altro luogo, dove sarebbero stati scortati per la loro incolumità da un drappello armato della curia episcopale. Non dice il documento quale fu la sorte dei due banditi, ma il 17 novembre il Vicario Generale, con la partecipazione dei monaci di S. Benedetto e di numerosi testimoni, effettuò un sopralluogo negli spazi adiacenti alla chiesa e al monastero, durante il quale fu accertata l’avvenuta “bonifica” dei luoghi sacri. Il documento, redatto in latino, fornisce indirettamente anche preziose informazioni sullo stato di fatto dei luoghi nei primi decenni del Settecento.

Nel prosieguo dell’articolo Leopoldo Cassese fornisce inoltre una succinta ma esaustiva descrizione delle vicende costruttive del complesso di S. Benedetto (destinato a Caserma e poi a teatro, sotto il nome S. Gioacchino nel periodo murattiano e di S. Matteo con la restaurazione borbonica, fino al 1845) nonché delle sistemazioni dell’area circostante l’insula monastica, vicende che precedentemente erano state nel 1939 già oggetto di studio da parte di Armando Schiavo e che furono sul finire degli anni Cinquanta sicuramente registrate dall’architetto Ezio De Felice, che in quel tempo andava redigendo il progetto del magistrale restauro del sito monumentale di S. Benedetto e la creazione del nuovo Museo Provinciale. Partendo dalla ben modesta “damnatio memoriae” del 1943 per quella zona della città, la considerazione che ci ha spinto alla rilettura del breve saggio di Cassese nasce dal fatto che anche i censori del 1735 vollero infine lasciare un segnale scritto, con la lapide ordinata dal cardinale Spinola affissa tra il muro occidentale dell’atrio e il prospiciente monastero di S. Michele, un marmo che avvertiva contemporanei e posteri dell’avvenuta cessazione del diritto di asilo in parte dell’atrio a causa delle profanazioni e dei turpi commerci avvenuti al cospetto del più che millenario monastero.