BANDITI E BOSS

Dumas, le cronache della mala

Il romanziere racconta la genesi della camorra: «È la pressione del forte sul debole»

di ALESSIO DE DOMINICIS

È dai tempi di Ghino di Tacco, celebrato anche da Dante e Boccaccio, che la figura del brigante ha suscitato vivo interesse nell’immaginario delle classi subalterne. Guardiamolo non nella rocca di Radicofani, non nel Medioevo, ma nel Mezzogiorno e nell’età moderna per capire qualcosa della storia nazionale. Senza scomodare tanti trattati e teorie socio-politiche, senza esagerare nelle tesi assolutorie o nelle cause di beatificazione del brigantaggio meridionale o in quelle di condanna senza appello, ci si limita a constatare che nel primo decennio dell’Italia Unita ci furono nel Mezzogiorno d’Italia battaglie e massacri da guerra civile. Cifre ufficiali e certe sui morti ammazzati non sono mai venute fuori, ma furono ben 120mila i soldati del nuovo Regno d’Italia impegnati nelle battaglie della guerra di repressione, prendendo, ad esempio, l’anno 1863. È anche l’anno in cui Alexandre Dumas (1802-1870), maestro del romanzo storico e d’avventura, pubblica a Napoli, dov’era giunto nel 1860 al seguito del suo amico Giuseppe Garibaldi, il libro “Cento anni di brigantaggio nelle Province meridionali d’Italia”, (Napoli, De Marco, 1863). “Volume primo” recita il frontespizio del libro, ma fu l’unico pubblicato, anche perché in quello stesso anno l’autore lascia Napoli, dopo esservi rimasto per tre anni di seguito, facendo anche il “Direttore degli scavi e dei musei”, ma soprattutto svolgendo l’incarico affidatogli da Garibaldi nel 1861, quello di fondare e dirigere il giornale “L’Indipendente”. Notiamo per inciso che il giornale non cessò di uscire dopo la partenza del suo primo direttore, ma fu stampato fino al 1876, e il curatore della parte italiana fu Eugenio Torelli Viollier, che poi sarà noto come il fondatore del Corriere della Sera. Chiusa parentesi, passiamo al libro. Il mestiere di cronista a tempo pieno e corrispondente da Napoli per riviste parigine consente a Dumas di conoscere abbastanza bene la città; nascono cosi il volume di “schizzi” di vita partenopea “Il corricolo” o il romanzo storico “La Sanfelice”.

Ma non solo Napoli aveva conosciuto Dumas padre, ché anche prima di arrivarvi da Palermo con Garibaldi e i Mille, un’altra occasione - stavolta fortuita - gli aveva consentito di attraversare tutta la punta dello Stivale. Fu quando nel 1835 una forte tempesta sconsigliava di prendere il mare dalla Sicilia a Napoli, e allora Dumas, sotto il falso nome di monsieur Guichard, viaggiò in carrozza attraverso la Sicilia, la Calabria e buona parte della provincia di Salerno, in compagnia dell’amante, poi sua moglie, Ida Ferrier, del pittore Louis Godefroy Jadin e del cane Mylord. Le ragioni del falso passaporto risiedono, secondo qualche storico, negli intenti politici del viaggio, ispirato da ambienti cospirativi marsigliesi intorno a Mazzini, per raccogliere informazioni logistiche in preparazione di future rivolte antiborboniche. Comunque sia, Dumas poté mettere insieme e annotare notizie e storie, anche del secolo precedente, sul brigantaggio nelle provincie napoletane, che poi confluiranno nel suo libro del 1863. Seguendo le riflessioni di Dumas non si può non apprezzare la capacità di analisi, avendo egli compreso del brigantaggio il carattere non occasionale ma strutturale: «… Nell'Italia meridionale, si è brigante, come si è muratore, conciatetti, calderaio, maniscalco o sarto. Il brigante ha la sua casa, a cui, come abbiamo detto, torna l'inverno; ha famiglia, amici, un confessore. Nessuno pensa a denunziarlo, perché tutti farebbero quel che fa… Pel contadino, pel colono, pel cafone dell'Italia meridionale l'uomo della legalità è stato e sarà sempre “la corte”. L'uomo del furto, della rapina, dell'incendio è stato e sarà sempre “il fratello».

Parole dure verso il popolo meridionale, ma Dumas nel suo scrivere coglieva anche, nei fatti contemporanei, le ragioni del “bandito”, il malessere di tanta parte d’Italia che non si sentiva né garantita, né protetta dal potere delle leggi e dallo Stato. E questa è storia vecchia, lo sappiamo. La parte finale del libro riguarda la camorra, con vicende ricostruite dal 1821 al 1863. Si parte con una definizione lapidaria: «La camorra è una società in comandita per usufruttuare il lavoro a profitto della pigrizia», e poi aggiunge «I camorristi non sono propriamente ladri; sono percettori di tasse imposte dalla forza, dalla minaccia, dalla paura, e che nessuna legge, tranne la paura, ha consacrate: è la pressione del forte sul debole». Dopo aver lanciato i suoi strali contro i Borboni, che si sarebbero serviti della camorra contro i carbonari, dopo alcune divagazioni sulla storia ed origine del nome, Dumas passa a narrare, con arte, decine di fatti di cronaca del suo tempo, riguardanti la camorra in città e nelle provincie. È la rassegna d’eccezione d’ogni sorta di reato o di crimine, dal furto con destrezza all’omicidio, dalla truffa alla rapina a mano armata. Molte di queste cronache di malavita le aveva già pubblicate sul suo giornale napoletano, “L’indipendente” che abbiamo prima citato, e sovente la riflessione di Dumas sarebbe da trasferire, pari- pari, alle cronache criminali dei giorni nostri: «... Abbiam detto, poche pagine più su, esser gli assassini a Napoli tanto numerosi perché le persone del popolo, non avendo mai riflettuto al gran Mistero tanto poeticamente discusso da Amleto - essere o non essere - , uccidono, uccidono per ignoranza di ciò che tolgono...».

Poi riporta un esempio di crimine gratuito, fresco di giornata: «Ieri al vico Carminello a Toledo, un uomo fu ucciso per una noce. Il venditore voleva dargliene nove per un grano, ed egli ne voleva dieci. Il compratore distese la mano per prendere la decima, il venditore gli diè una coltellata e l'uccise». Quanto alla camorra, la sua vera matrice è in questi pochi, autoreferenziali, versi dell’epoca: «Nui nun simme cravunare / nui nun simme realiste/ nui facimme ‘e cammuriste/ jammo ‘nculo a chille e a chiste». È l’ideologia qualunquista che plaude ad ogni regime di manica larga e trasmette i suoi disvalori alle generazioni giovanili, affascinate dalla forza della paura. A un secolo e mezzo di distanza dal libro di Alessandro Dumas, la camorra napoletana conserva sempre la stessa matrice reazionaria e fa proseliti tra giovanissimi, come quelli del neo-idiotismo “stesa”, sempre ammaliati dalla forza della paura che oggettivamente - e colpevolmente - è anche suffragata nei modelli di comportamento, cinematografici e televisivi, sempre più diffusi.