L'INTERVISTA

Don Joe: «Ora inventiamoci il rap made in Italy Club Dogo, chissà»

Il “re Mida” dei producer hip hop è in vacanza a Giffoni

 

“In quattro metri quadri ho fatto il suono del Dogo”. Anno Domini 2008: erano versi a firma di Don Joe, nome d’arte di Luigi Florio, rivoluzionario producer che, dagli “Anni Zero” ad oggi, ha radicalmente sovvertito le sorti della musica italiana. Rare rime d’un artista che, nel corso della sua carriera, ha diuturnamente privilegiato lasciar parlare un campionatore ed una drum machine, ché «nella vita - dice - bisogna scegliere se fare una cosa o l’altra, perché è impossibile esser bravi a far tutto al 100 per cento». Il suono del Dogo: non poteva immaginarlo, il beatmaker milanese («Di Bresso, ci tengo», rimarca orgogliosamente il 46enne), che in quella cameretta, dalle sue dita, era già venuto fuori il suono della nuova era. La moderna Golden Age del rap italiano, genere d’élite - che non ci campava - finché la “meglio gioventù” non conobbe i moderni cantastorie, figli d’una sanguinolenta gavetta nei centri sociali milanesi. I cuffioni incollati alle orecchie dei nostri ragazzi, i quattro quarti che picchiano i coni d’un amplificatore, la freschezza che ha tirato a lucido la “musica per vecchi” nel Paese delle canzonette e l’innata voglia d’imprimere emozioni su un quadernetto: tutto quel che è venuto dopo è figlio d’un manipolo di sognatori. Di quelli come Fabri Fibra. Come Marracash. E come i (furono) Club Dogo («Pure se non ci siamo mai sciolti»): Gué Pequeno, Jake la Furia e Don Joe. “Re Mida”, lo chiamano nella scena, ché quel che tocca diventa (disco d’)oro. Se l’è pure tatuato: “Midas touch”. Un dono prezioso, che a volte può far male. «T’è piaciuto il disco?», mi chiede al tavolino d’un incantevole terrazzino nel cuore di Giffoni Valle Piana, buen retiro di Don Joe (da “Don Giovanni”, l’album di Battisti che tanto apprezza), che ha scoperto l’amore negli occhi de “La Simona”. È Simona Gubitosi, la donna della sua vita. Ed è giffonese. “T’è piaciuto il disco?”, mi ripeto, soggiungendo: “Me l’ha chiesto davvero?”. Ha cambiato per sempre la musica italiana e chiede a me se il suo “Milano Soprano”, che in dieci giorni ha raggiunto le cime d’ogni classifica che esista, m’è piaciuto? «È una bomba», rispondo. Poi gli chiedo:


Dove hai trovato il coraggio di tirar fuori un disco ora, col mercato paralizzato dal Covid?

C’erano delle strumentali, con un bel filone logico. Di lì è nato l’album. E volevo parlare di Milano, ripartire da dove ho iniziato. E ho deciso di farlo con artisti milanesi.

Ho fatto un calcolo malato sul tuo album. È venuto fuori un numero: il 93.

In che senso?

Novantatré anni. Se sommi le differenze d’età tra le coppie di rapper che collaborano sulle canzoni, vien fuori il numero 93. E 93, in termini generazionali, è un numerone, no?


Sì, è vero. Prima d’ogni cosa, volevo creare combinazioni inedite. E poi mettere a confronto due generazioni, pure se, in certi casi, ci sono divari tanto netti da arrivare pure alla terza, di generazione. Un confronto generazionale tra artisti che stiano bene insieme. Per voce e per tematiche. E poi c’è un’altra chiave di lettura: la multietnicità d’una Milano diversa.

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