Diritto feudale L’atto di accusa di Angelo Masci

Abusi e soprusi dei baroni nel Mezzogiorno che richiesero una commissione d’inchiesta

di ALESSIO DE DOMINICIS

La questione Meridionale ricorda un po’ – alla lontana ovviamente – la questione palestinese: entrambe si trascinano da troppo tempo senza apparente soluzione ed entrambe si portano dietro un mai sopito e antico malessere diffuso, dovuto ad abusi delle istituzioni, del potente di turno, della politica ed alla protervia di nazioni dominanti. Per quella che ci tocca da vicino, il Mezzogiorno d’Italia che ancora arranca per quella zavorra di guasti che si diceva, se si guarda alla storiografia ed alla produzione di idee di riforma politica e amministrativa, ci si accorge che già dalla prima metà del settecento, una pattuglia di intellettuali meridionali, costituita da filosofi, giuristi, economisti, aveva offerto alla politica del tempo soluzioni avanzate. Molte di queste intelligenze, sul finire di quel secolo, li ritroviamo con ruoli istituzionali nel governo della Repubblica Napoletana del ’99 (quando invano si tentò di abrogare i diritti della feudalità) e molte di quelle teste saltarono con la reazione sanfedista, altri pagarono con il carcere e la confisca il loro azzardo politico. Tra questi, meno noto di Mario Pagano, Domenico Cirillo, Melchiorre Delfico, vi fu Angelo Masci (1758 -1820), avvocato presso lo studio napoletano, alla via San Sebastiano, dello zio, quel Pasquale Baffi ellenista, bibliotecario e massone illuminato, che per la sua convinta adesione alla Repubblica Napoletana, alla caduta di questa, fu impiccato in Piazza Mercato nel novembre del 1799. Il nipote Masci, forse per la condizione più defilata, se la cavò con la semplice carcerazione. Entrambi, zio e nipote, erano nativi di Santa Sofia d’Epiro (Cosenza), un villaggio fondato da profughi greco-albanesi alla fine del sec. XV. Del Masci vogliamo rievocare il suo “Esame politico-legale de’ diritti e delle prerogative de’ baroni nel Regno di Napoli”, pubblicato a Napoli nel 1792 presso la Stamperia Simoniana. Un volume raro, di piccola mole (una introduzione, sei capitoli e una conclusione) ma di grande importanza per la storia del diritto feudale, che precede e forse costituisce modello per la “Storia degli abusi feudali” del giurista Davide Winspeare, ponderoso lavoro pubblicato vent’anni dopo, ma in un clima assai più favorevole, dopo l’eversione della feudalità del decennio napoleonico, promulgata da Giuseppe Bonaparte (1806) e poi attuata da Gioacchino Murat (1808). Il primo articolo della legge del 1806 recitava: “La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili”. Sembrò a molti che si fosse trovato il modo di eliminare i retaggi della feudalità nel Mezzogiorno e mettere riparo agli abusi e alle usurpazioni ultrasecolari di beni demaniali da parte di baroni ed ecclesiastici, mettendo in atto le idee del Masci e, prima di lui, quelle di Antonio Genovesi, nemico giurato della nobiltà parassitaria napoletana. Ma non fu così. Per dirimere l’enorme contenzioso tra i baroni e i comuni fu necessario istituire una magistratura speciale, la Commissione Feudale, di cui lo Winspeare fu procuratore generale e Masci uno dei commissari ripartitori per i comuni di Calabria e Basilicata. Procedere alla ricognizione dei beni demaniali usurpati non era operazione che poteva compiersi a tavolino, occorreva battere il territorio e stabilire sul posto i confini certi degli immobili da restituire ai Comuni, stabilire con certezza gli antichi diritti delle popolazioni locali e il riconoscimento degli usi civici. Ma non tutti i commissari nominati in seno alla Commissione Feudale furono all’altezza del compito, limitandosi a spedire sui luoghi i loro agenti, che il più delle volte restavano confusi dai mille cavilli, intrighi e intralci dei feudatari resistenti o, peggio ancora, da questi indotti alla collusione. Non così agì Angelo Masci, che personalmente si recava sui luoghi ed applicava con zelo quella legge da lui tanto auspicata. Per dare un solo esempio del suo lavoro si cita, dal testo di Rosario Villari “Mezzogiorno e contadini nell'età moderna” ( Laterza,Bari,1977, pag. 178 ), il caso del contenzioso tra il comune di Brienza e il feudatario marchese Caracciolo: in ragione di un’ordinanza del commissario Masci del 25 aprile 1812 la rendita feudale, con l’applicazione della legge eversiva, riceve un colpo da 14.000 ducati annui, perdendo, oltre alle terre assegnate al comune, anche i secolari diritti di decima sul macinato e quelli proibitivi sulla costruzione di nuovi mulini. A poco valsero i tentativi del feudatario di opporsi all’ordinanza, chè il Masci, con studio analitico delle istituzioni feudali e delle cosiddette prerogative baronali, aveva col suo testo anticipatore della legge dimostrato che i pretesi diritti baronali si fondavano solo ed esclusivamente sulla ingiustizia, sui soprusi e sulla violenza, non trovando alcuna giustificazione “né secondo i dettami della politica, nè secondo la storia e la vera giurisprudenza”. Il testo di Masci contiene in sintesi l’idea “rivoluzionaria” della necessità per il Sud di una “legge agraria”, cioè di un nuovo assetto della proprietà fondiaria, a favore della popolazione agricola che potrà “avere un pronto sollievo colla diminuzione delle vaste tenute delle mani morte e l'agricoltura riprendere vigore”. La “mano morta” (da non confondersi con quella attuale, limitatamente esercitata sugli autobus e con più modesti intenti ) stava a significare – con immagine efficace – una forma di possesso perpetua e inalienabile del patrimonio immobiliare , civile o ecclesiastico, e perciò assimilabile alla rigidità della mano di un cadavere. Con la legge dei Napoleonidi però i contadini poveri e i braccianti non furono a lungo beneficati dalle assegnazioni ricevute di quote dei terreni demaniali, non bastevoli per la nascita di un solido ceto medio contadino, sia per quantità di terra coltivabile che per mancanza di aiuti economici per avviare le migliorie e la produzione dei fondi ricevuti, privi com’erano di denaro o per essersi indebitati e infine costretti per necessità a vendere le quote ricevute alla nascente borghesia rurale, favorita nel processo di accumulazione delle ricchezze dagli eventi politici.

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