Daniele Sepe al Moro «Penso e canto in dialetto per farmi identificare»

Stasera sarà a Cava con un gruppo di cinque musicisti «Racconto la Napoli di oggi attraverso un lavoro collettivo»

CAVA DE TIRRENI . Daniele Sepe suonerà, stasera (ore 22,30) al Moro nelle vesti di “Capitan Capitone” con il suo progetto o meglio, la sua “zattera” che vede a bordo i musicisti: Claudio Gnut (voce e chitarra) Andrea Tartaglia (voce e chitarra), Roberto Colella, (voce e chitarra), Dario Sansone (voce e chitarra) e Lorenzo Campese (piano, hammond, tastiere).
Con loro, Sepe ha appena pubblicato il secondo progetto discografico del collettivo dal titolo “Capitan Capitone e i Parenti della Sposa”.
Sepe, chi è “Capitan Capitone” e dov’è diretta la sua zattera?
Siamo nati dall’esigenza di raccontare la città di Napoli com’è oggi, attraverso lo sguardo di persone tra i 20 e i 60 anni. Sappiamo che lavorare collettivamente è meglio rispetto a una dimensione individuale, come in un trasloco: se si è in 20 è più facile e ci si diverte mentre se sei solo ti spacchi la schiena. Cerchiamo di elaborare dei testi che non siano banali ma nemmeno pesanti. Non c’è una direzione di stile, ho sempre comunicato attraverso più generi. Penso che chi parla più di una lingua possa affrontare meglio il mondo. Suonando da tempo, posso suonare di tutto. Mi hanno sempre attribuito l’aggettivo “zappiano” ma magari fossi come Zappa. La verità è che in Italia si è abituati a una musica piatta che va sempre in una sola direzione.
Nel disco hanno suonato 69 musicisti, da Stefano Bollani a Gino Fastidio e altri. Come ha reclutato la sua ciurma?
Alcuni ne sono parte stabile, come Claudio (Gnut, n.d.r.). Lui è con noi da sempre ma all’interno di una truppa non si fa differenza tra chi ha fatto di più e chi di meno, lavoriamo tutti allo stesso modo, siamo amici. Suonare è importante ma in un tour il tempo che trascorri sul palco si limita a un paio d’ore: se nelle restanti non stai bene, fai uno schifo di musica.
Anche questo disco è in dialetto, una costante della sua musica
Io parlo, penso e sogno in dialetto. Non sono uno di quelli che pensano che la propria città sia la migliore al mondo, sia chiaro: sono curioso. Nel primo disco del gruppo ho inserito anche un brano in serbo-croato e in questo ce n’è uno brasiliano ma il dialetto ci unisce in uno stato a sé stante, ci mette tutti insieme, è qualcosa che ci identifica immediatamente in una situazione particolare. E dice: parla come mangi.
“Spritz e rivoluzione”, cavallo di battaglia del gruppo, racconta le nuove generazioni. C’è del sarcasmo?
No, è la realtà. Basta andare la sera a piazza Bellini a Napoli, ad esempio. Questi ragazzi vorrebbero farla la rivoluzione ma poi desistono: “stanno troppo ’mbriachi”. Noi avevamo una reattività diversa, la mia generazione ha tentato davvero di cambiare le cose ma è stata stroncata dall’eroina e oggi l’alcol ha la stessa funzione. Io non sono un sacrestano, sia chiaro, bevo e mi diverto: ma un conto è la dimensione individuale e un altro è quella d’insieme.
Alessandra De Vita
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