«Dai miei paesi vuoti al grande sogno del premio Campiello»

La giovane scrittrice famosa come abbandonologa «Questa parola è stata coniata da un ragazzino»

di DAVIDE SPERANZA

C’è tutto un mondo che galleggia, al di fuori del vorticoso caos delle metropoli e delle città. Un mondo, ricoperto di polvere, che aspetta di riemergere dall’oblio per diventare segno, solco senza tempo, mappa storica di un paese e di un popolo. Sono centinaia, in Italia, i paesi abbandonati dall’uomo: borghi, cittadelle, villaggi. Oggi una scrittrice salernitana, Carmen Pellegrino, ha deciso di andare alla scoperta di questi molteplici mondi dimenticati. Lo fa, non solo attraverso il suo studio di storica, ma anche grazie ad un libro, “Cade la terra”, edito da Giunti e arrivato alla finale del Premio Campiello.

Come è nata l’idea di questo libro?

Prima scrivevo eventi di storia, poi ho deciso di scrivere un romanzo. Sono andata all’origine, al fondo di ciò che conoscevo meglio, ovvero il rapporto con l’abbandono. Sono nata a Postiglione degli Alburni, circondata da luoghi dimenticati, come Roscigno Vecchia e Romagnano al Monte. Tutto nasce dal mio desiderio di riscoprire quei luoghi.

Perché questa propensione all’abbandono?

Questi paesi li vedo molto vicini alla parte più intima dell’uomo. Un paese abbandonato è ciò che ci assomiglia di più. Un paese abbandonato è privato di tutti gli orpelli, resta il cuore, le pietre che parlano e possono parlare, raccontarci le vite di chi le ha abitate, le ha attraversate. Un paese abbandonato ce lo portiamo tutti dentro, in una dimensione profonda.

Cos’è l’abbandonologia?

È uno stato d’animo, un’attitudine a cercare nella polvere tracce di vita, dove l’uomo se n’è andato. Però la vita continua, la natura in tutte le sue manifestazioni anche più violente. Io credo molto alla dimensione del tempo delle cose oltre il tempo degli uomini. Ecco, l’abbandonologia è ricercare la bellezza in una molteplicità di brandelli, ciò che non è più funzionale e vedere in questa perdita, in questa sottrazione una grandissima possibilità.

C’è un metodo scientifico che utilizza?

Ricostruisco la storia del borgo. Utilizzo gli strumenti dello storico. Vado alle fonti, agli archivi, le testimonianze orali, i figli di coloro che vivevano il paese. Ricerco la vita vissuta lì. Questo fa lo storico. Poi il romanziere inverte il corso e il destino, usa la fantasia. Per esempio tutte quelle comunità cancellate per un superiore interesse nazionale quando bisognava costruire le dighe, erano costrette a spostarsi. Lo storico riscostruisce il loro passato e il romanziere usa invertire il corso della storia con le parole, immaginando quelle vite.

Come si distribuiscono questi luoghi abbandonati, lungo la Penisola?

Ce ne al Nord e al Centro, anche nelle isole, ad esempio in Sardegna, i cosiddetti villaggi minerari abbandonati, oppure Le Fabbriche di Carreggine in Toscana, un paese che riemerge ogni dieci anni quando svuotano la diga. Ma al Sud ce ne sono di più, paesi che rischiano di essere abbandonati perché non ben collegati con le città. Di pari passo con lo spopolamento, c’è l’abbandono delle linee ferroviarie: 6 mila chilometri di strada ferrata abbandonata. La Calabria, la Basilicata. Paesi come Craco, Alianiello, Campo Maggiore Vecchio. Piccoli borghi di 300 persone e meno, che tra qualche anno diventeranno fantasma.

Le cause dell’abbandono?

Soprattutto naturali, legate al dissesto idrogeologico, la terra che slitta, molle e insidiosa. Il terremoto ha causato abbandoni come Romagnano al Monte nel salernitano dopo il terremoto dell’ ’80. Ma anche la povertà degli anni ‘50 e ‘60, quando le popolazioni avevano necessità di spostarsi per trovare lavoro.

L’obiettivo del libro è denunciare un problema?

Se il romanzo contribuisce a far nascere una sensibilità verso questi luoghi sono felice. Ma non immaginavo che potesse avere tutta questa eco.

Prevede un loro inserimento nel circuito turistico culturale?

Senz’altro visitarli, parlarne è un modo per tenerli in vita. Sarebbe auspicabile anche un intervento pubblico. Le case cantoniere vengono recuperate da associazioni. All’interno, ne fanno luoghi di aggregazione e di ritrovo culturale.

La Treccani ha coniato un neologismo sull’abbandonologia.

In realtà un bambino inventò questa parola, mentre ero in una libreria. Io l’ho riportata su facebook e da lì è rimbalzata ovunque. Ne ho parlato anche in televisione, a “Il Caffè di Rai Uno”, dove Andrea Di Consoli mi aveva invitato a parlare di borghi abbandonati.

Si aspettava, la finale al Premio Campiello?

No. È una cosa sorprendente.

È importante che le nuove generazioni si avvicinino a queste tematiche?

Alla base di tutto, c’è il discorso della memoria. Come fare a proiettarsi in avanti, senza passato? Invito i ragazzi a seguire e visitare questi luoghi. Ora che sono disabitati vedi come era strutturata la vita. Le case erano disposte per essere sorvegliate. Ecco, osservando tutto questo, si studia come veniva esercitato il potere.

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