L'INTERVISTA

Cobucci: «José Ortega, cilentano nel sangue»

Il medico di Bosco: al primo incontro gli cedetti gratuitamente un pezzo di terreno, poi diventai suo amico e confidente

Da oggi alcune opere di José Ortega saranno esposte nel Parco Archeologico di Elea-Velia, grazie ad un’idea della direttrice Giovanna Scarano e alla collaborazione con il Comune di San Giovanni a Piro. Una parte importante in questa esposizione è stata giocata da Nicola Cobucci che ha esercitato per una vita la professione di medico nel Golfo di Policastro e che vive a Bosco, frazione di San Giovanni a Piro, dove il pittore realista Ortega si rifugiò dopo essere stato esiliato dal regime franchista. Qui proprio Cobucci divenne amico e confidente del pittore spagnolo, tanto che alla sua morte ha contribuito all'istituzione di un museo per ricordare il soggiorno di Ortega nel Cilento.

Dottor Cobucci, quando conobbe José Ortega?

Era la fine di giugno del 1971, quando incontrai per la prima volta Ortega. Sapevo che mi aveva cercato e che mi aspettava: voleva ampliare il suo giardino e mi chiese di vendergli un pezzo del mio terreno sul quale vi era un secolare ulivo. Aveva un fare educato e gentile, mi disse che per lui non c’era problema di prezzo e che me lo avrebbe pagato più del valore reale. Qualche giorno dopo, durante la stipula del contratto, dovendo definire il prezzo, gli feci capire che intendevo fargli dono di quanto chiesto da lui, così non senza resistenza accettò il mio regalo assicurandomi che mi avrebbe ripagato in altro modo. Solo undici anni dopo, nel 1982, mi mandò un grande quadro, raffigurante una scena campestre, “Raccoglitrici d’ulive”, con una dedica, dietro la tela, in cui ricordava il mio dono e mi ringraziava. Con questo gesto spontaneo e disinteressato, nacque la nostra amicizia e una delle esperienze spirituali più importanti della mia vita.

Ortega come arrivò a Bosco, paesino del profondo Cilento?

Dopo aver sperimentato il carcere e l’esilio a Parigi, scelse prima Matera e poi Bosco, in maniera motivata e sofferta. Da noi trovò i colori della sua terra, i patimenti secolari che colse sulle pietre delle case e sui volti della nostra gente. Amava ripetere: «Qui ho trovato un’angoscia e una miseria esistenziale che sono quelle della mia gente». Molto spesso sottolineava la similitudine della sua storia personale e quella di Bosco tanto che ripeteva: «Che strano io che fuggo dalla dittatura di Franco, mi trovo rifugiato in un paese distrutto, bruciato da un potere politico dello stesso segno, dai miei avi, i Borbone». Proprio da questo sentimento presero forma le maioliche poste all’ingresso del paese, per ricordare la repressione dei moti del 1828.

Cosa lo colpiva particolarmente del paesaggio e della gente del nostro Cilento? Era un camminatore solitario, per lui addentrarsi nella natura ed esplorare i luoghi era un’esperienza ineludibile e mistica. Lo ricordo osservare attentamente ciuffi d’erba, bacche, fiori: li scrutava nelle forme, nei colori, nei profumi, fino a confondersi con essi in una contemplazione spirituale. Dei contadini di Bosco, con i quali amava parlare, lui stesso ne descrisse un comune sentire in parole toccanti, che oggi per noi risuonano come monito ed esempio di unione e fraternità tra popoli : “Sto bene con voi, perché qui ho trovato un’angoscia ed una miseria che sono della mia gente. Perché i colori sono quelli della mia terra. Sono rimasto perché la pelle dei braccianti è scura e secca come quella dei contadini spagnoli.

Quale messaggio possono trasmettere le sue opere?

Uguaglianza, giustizia, libertà ed integrazione tra tutte le componenti sociali, non solo dei singoli popoli-nazioni, ma dell’intera umanità costituiscono l’afflato universale che abbraccia l’intera opera di Ortega, specchio fedele della sua vita e del suo sentire profondo. Perciò affermava: «L’arte per me non è un passatempo, ma legge morale, imperativo etico ». C’è ancora sulla sua scrivania il calco del suo pugno di comunista combattente accanto ai piedi di Cristo crocifisso. Esempio di fusione di valori etico- spirituali quale indispensabile fondamento di integrazione tra popoli e culture.

Secondo lei, l’arte, passando attraverso la seduzione fino a giungere alla riflessione, può contribuire ad affrancare l’uomo dalla violenza?

L’arte di per sé è seducente, anche se l’artista, come nel nostro caso, non cerca né edonismo né seduzione. Ortega che è artista verista-realista, sente forte l’imperativo, come lei dice, di far riflettere, di rendere consapevoli le masse popolari del proprio status per un agire politico-sociale conseguente. Solo dopo aver raggiunto tale consapevolezza, il singolo e la collettività sapranno opporsi ad ogni violenza ed affrancarsi da ogni sudditanza. Questa la lezione dell’uomo Josè Ortega.

Mariella Marchetti