Clerici è “Quello del tennis”

Storie di sport e di amicizia nella biografia del grande giornalista ed ex atleta

di CLAUDIO GIUA

Cesare Garboli era impressionato: “Possiede l’impietosa arte del narrare oggettivo”. Davanti al giudizio così definitivo del più eclettico letterato di fine millennio, gli editori italiani avrebbero dovuto aprire un’asta al rialzo per aggiudicarsi l'esclusiva dei successivi lavori di quel giovane autore stimato anche da Mario Soldati, Giorgio Bassani, Oreste del Buono, Giovanni Raboni, gente che di libri s'intendeva. Macché. Il paese del perdonismo radicale non perdonava né perdona, a chi nasce giornalista sportivo, di volersi cimentare con il long writing e, magari, con il teatro.

Era già accaduto a Gianni Brera, indiscusso numero uno del genere, che solo dopo il successo di “Il corpo della ragassa” (Longanesi, 1969) ebbe qualche riconoscimento dal mondo della cultura; Giovanni Arpino aveva invece rischiato l'espulsione dal circolo degli scrittori laureati per aver accettato di entrare nella redazione sportiva della Stampa; lo stesso isolamento ha patito Gianni Clerici, del quale Garboli tessé le lodi di cui sopra recensendo il suo romanzo d'esordio, “Fuori rosa” (Vallecchi, 1966).

Bel lontano dal lamentarsene, l'autore di “500 anni di tennis”, secondo Enzo Biagi il più celebrato long seller italiano all'estero dopo “La Divina Commedia” e “Pinocchio”, racconta con leggerezza di quell'ostracismo nella bio-eterografia (copyright Clerici) dal titolo “Quello del tennis” (Mondadori, 20 euro), irragionevolmente preferito al lombardo “Quel del tenis” che avrebbe meritato di prevalere per le ragioni indiscutibili elencate nell'undicesimo capitolo. Ma è poco più di un passaggio, perché lo scrittore scappa via a ricordare il giovanile apprendistato tennistico all'Hanbury Tennis Club di Alassio, l'onirico dialogo con Hermann Hesse a Montagnola nel Canton Ticino, l'anno speso a seguire le infinite tracce lasciate dalla divina Suzanne Lenglen, le goliardate del Club Serpenton, i soggiorni a Londra e ad Austin, l'amicizia profonda con Ottavio Missoni. Di episodio in episodio, sul filo dell'ironia mutuata dall'amato P.G. Wodehouse emerge il talento da raccontatore del figlio di Luigi, “nato nel 1899, al n.2 di vicolo Bonola”, e di Lucia Castelli, “nata al n.4 dell'attuale piazza Matteotti, nel 1905”. Il luogo, come chiunque segua Clerici sa, è Como dove “Luigi e Lucia ebbero modo di occhieggiarsi nel lontano 1926, o 1927, prima di sposarsi e fidanzarsi nel 1929, e infine riprodursi, ahimè una volta sola, lasciandomi figlio unico”.

Si rassicurino le legioni di fedelissimi delle (pseudo)cronache di Clerici su Repubblica e, prima, sul Giorno: nelle duecento pagine il tennis si prende talvolta la scena, come nei capitoli su Bud Collins e Nicola Pietrangeli, o come quando si dice di Frank Sedgman, australiano quasi coetaneo, nel '52 finalista in tutti e quattro gli Slam e vincitore a Wimbledon e New York, dal quale Clerici venne malamente sconfitto al Foro Italico.

Il secondo match lo disputarono cinquant'anni dopo, e fu un doppio al Kooyong Lawn Tennis Club di Melbourne. Al termine, l’ex campione, ammirato per la vivacità dell'antico avversario, gli propose di fare coppia in occasione dei vicini Mondiali per veterani. Dopo congrua riflessione, Clerici vergò un biglietto di scuse: calorose ma formali, perché la verità è che nulla gli appare “più triste delle gare tra veterani. Soprattutto quelli che veri campioni non sono stati, e si mostrano ancora avidi di una gloria appassita”. Ho in tasca una lista di nomi ai quali dedicare queste due folgoranti righe.

Il tennis non è tuttavia il protagonista assoluto della bio-eterografia. Che è piuttosto la passione per gli incontri con notevoli contemporanei. Memorabile quello con Ernest Hemingway a Pamplona durante la Feria de San Fermín. Tanto straordinario da apparire frutto di fantasia (“…conservo una foto con Hemingway scattata dal mio caro Gil de Kermandec”, mette le mani avanti Clerici).

Tutto comincia con il nostro che, casualmente seduto al caffè Txoko accanto allo scrittore americano, lo sente raccontare di Rafael Romero, notissimo toreador, e del suo rapporto quasi d'affetto con il toro Amigo, che poi l'avrebbe incornato e ucciso. Storia inedita che varrebbe da sola un film e della quale adesso Clerici s'impossessa: legalmente, giura, sulla base di un accordo verbale preso quasi sessant'anni fa con l'autore di “Il vecchio e il mare” sulla barrera di San Fermín.

A Milano, invece, gli capitò di proporre a Walter Chiari, mattatore della rivista e poi nei teatri oltre che amante invidiatissimo di Ava Gardner, una commedia scritta con Gianni Brera, maestro di giornalismo e bevute, e talmente legata alla cronaca da chiamarsi “L'amore è N.A.T.O.”.

Un disastro: “Brera prese a leggere il testo, e Walter apparve divertito e incoraggiante, sinché, d'un tratto, si addormentò. Il sonno fu talmente repentino che Gianni non se ne avvide, e continuò a declamare, per essere infine interrotto da una mia risata. Allora, cautamente, ci alzammo e ce ne andammo, lasciando Walter ai suoi sogni”.

In “Quello del tennis” ci sono gli annunci di due lavori in corso sulla scrivania vista lago di Gianni Clerici: il seguito di “1984” autorizzato da George Orwell durante una seduta spiritica e la stesura definitiva di “Art and Tennis, a Way to Play with Life”. Non vedo l'ora. Nel frattempo, da qui chiedo ufficialmente a Gianni di accettarmi tra i soci del Clerici's Club. Con tanto di cravatta, please.

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