LA STORIA

Carestia e tifo, quel ’64 fu davvero funesto

Nel Settecento i due eventi calamitosi provocarono fame e miseria tra la popolazione mettendo in ginocchio il Salernitano

Nella storia del Regno di Napoli l’anno 1764 si è caratterizzato per due eventi calamitosi, una micidiale carestia e una altrettanto micidiale epidemia di tifo, destando tale impressione nella popolazione che per molti anni, al sopraggiungere di qualche crisi, si usò dire : «Pare il ’64». Carestia vuol dire scarsezza, penuria, soprattutto di viveri, ma per il contadino meridionale del Settecento significava essenzialmente mancanza di pane. Il pane era il vitto ordinario quotidiano, si usava farlo di frumento assoluto, di granone o di una mistura composta di orzo, segala e granone.

La produzione di queste graminacee dipendeva molto dal clima, per cui grandinate, alluvioni, siccità, gelate, di portata superiore alla normalità, potevano significare per l’agricoltore scarso raccolto e quindi miseria, fame e anche morte. Quasi tutti questi cataclismi si verificarono nel primo semestre del 1763, per cui il raccolto fu molto misero, specie quello del grano, del quale in alcuni campi si perdette addirittura la semenza. Ne conseguì una carestia a memoria d’uomo «mai accaduta così generale e così lunga», che i governanti non seppero né prevenire né alleviare. Sugli sviluppi di questa storia dolorosa esistono varie testimonianze, rilevabili dalle memorie che i borghesi erano soliti redigere sui libri di famiglia. Tra quelle pubblicate ve ne sono alcune che riguardano l’area di Salerno e Mercato San Severino e vari luoghi del Cilento. Al di là di qualche episodio particolare, le vicende descritte sono simili dappertutto: lo stato miserevole delle popolazioni, i furti e i delitti commessi per sopravvivere, la perdita di riserbo anche dei più dignitosi, le zitelle «anche molto oneste che si venderono la stima e l’onore per un tozzo di pane», i cadaveri di mendicanti lungo le strade, il numero di morti sempre più crescente col passare dei mesi, la vigliaccheria di proprietari “impostatori” che nascosero il grano per venderlo a prezzi esosi quando scomparve sui mercati, tanto che il prezzo, che al raccolto era sui dieci-quindici carlini al tomolo, andò lievitando fino ad arrivare ad otto-dieci ducati.

A maggio, col nuovo raccolto, finisce finalmente la carestia ma ai suoi effetti si aggiunsero quelli, ancora più devastanti, di un’epidemia di tifo petecchiale. Il tifo era, dopo la peste, l’epidemia più temuta. Apparso come un elemento nuovo nella nosologia europea alla fine del XV secolo, era poi diventato una delle principali cause di mortalità. Nella sua forma esantematica o petecchiale, che si trasmette attraverso i pidocchi, attecchisce facilmente nei periodi di carestia sugli organismi debilitati dai digiuni. Sulla mortalità per fame si innestò quindi quella per contagio, tanto che non è possibile tirare una linea di demarcazione precisa tra l’una e l’altra. Ne soffrì, dove più e dove meno, l’intero regno, che calò di 176mila abitanti, ma più di tutto se ne risentì la città di Napoli, per la sua alta densità abitativa, con 26mila vittime. Poche ricerche sono state compiute sull’andamento della popolazione nei singoli centri abitati. Da uno di tali sondaggi, condotto sui libri parrocchiali dei morti, risulta che nel Cilento la mortalità fu più elevata nei paesi della zona interna montano-collinare (a Sicignano si toccò il 18 per cento, nella vicina Galdo addirittura il 24), ma si mantenne bassa nelle zone costiere (a Castellabate e dintorni si fermò sul 6 per cento), evidentemente per la possibilità di poter fruire delle vie di mare per rifornirsi di grano. Il contagio non scomparve del tutto entro l’anno 1764, a Cornoti (attuale Vallo della Lucania) durò fino a marzo del 1765 e nei pressi di Salerno, nella parrocchia di Saragnano, si ebbero più vittime nel 1765 (151) che nel 1764 (139).

Questi risultati non arrecarono grossi mutamenti come quelli della peste del 1656 perché non aprirono vuoti incolmabili nei giovani e la struttura della popolazione rimase invariata. Così pure va detto che l’evento carestia-epidemia del 1764, pur essendo impressionante, negli anni seguenti non comportò conseguenze sostanziali nella società né di costume né di mentalità.