Beppe Fiorello nella terra dei Fuochi

L’attore: «La fiction “Io non mi arrendo” è la storia di un eroe dello Stato»

ROMA. Non si definisce scaramantico. Però siccome nel 2013, il palco dell’Ariston ha fatto conquistare a “Volare – La grande storia di Domenico Modugno”, il primato della miniserie più vista dal 2005 a oggi con oltre 11 milioni di telespettatori e il 40% di share, Beppe Fiorello ha deciso di fare il bis. Per verificare – scherza – «se anche Carlo Conti mi porterà la stessa fortuna di Fabio Fazio». E in attesa dell’Auditel, si candida a guidare l’edizione 2020, «quella del settantennale e dei miei primi cinquant’anni», con una formula «che racconti il Paese attraverso le sue canzoni». Era il 13 febbraio di tre anni fa quando l’attore italiano presentò, ospite della seconda serata del Festival, la fiction poi diventata un tour teatrale da tutto esaurito. Stavolta, nella città dei fiori, l’ex “Fiorellino” di Radio Deejay, arriva per raccontare tutt’altra storia, quella del funzionario di polizia Roberto Mancini, che per primo ficcò il naso tra i veleni della Terra dei fuochi, tra le province di Napoli e Caserta. Fino a perderci la vita per un cancro. Alla sua incredibile storia, è dedicata la nuova fiction di Rai1 che lo vede protagonista, “Io non mi arrendo”, in onda lunedì 15 e martedì 16 in prima serata.

Fiorello, lei non è nuovo a ruoli complessi. Com’è stato confrontarsi con la figura di Mancini?

«Ho provato grande rabbia, ma anche tanta commozione. Ho avuto modo di leggere una sua bellissima lettera, il principio di un libro che non ha fatto in tempo a ultimare, che è poi stata l’incipit del lavoro degli autori. Ho conosciuto sua moglie, sua madre e sua figlia e mi sono subito innamorato del coraggio e dell’impegno civile di quest’uomo che sapeva di andare incontro alla morte, ma che nonostante questo, non si è mai tirato indietro in nome della verità».

Un uomo lasciato colpevolmente solo.

«Era scomodo: quando ha iniziato a scoprire le collusioni tra criminalità e politica, andando a scavare con le sue mani per dissotterrare interi tir carichi di rifiuti tossici, sepolti al di sotto delle autostrade, ha creato paure in uno Stato assente che ha riconosciuto alla famiglia, dopo la sua morte, un indennizzo imbarazzante che non gli rende nè onore nè giustizia. Ma è stato lasciato solo anche dalla società civile. Possibile che nessuno si sia accorto di quanto stava accadendo? Vengo da una terra dove la mafia si nutre di omertà perché è lì che attecchisce il male. E lo sa che penso?»

Prego, ci dica.

«Che oggi mi viene da ridere quando si paralizza una città chiudendola al traffico. Come se questo fosse l’unica causa dell’inquinamento, quando abbiamo sottosuoli devastati e sulle nostre tavole, in tutta Italia, finiscono prodotti potenzialmente nocivi per i nostri figli. Magari a prendere queste decisioni formali sono gli stessi che chiudevano un occhio quando si nascondevano sottoterra quintali e quintali di rifiuti tossici e gli stessi che in un periodo successivo, per ridimensionare l’allarme, hanno voluto far credere che il caso Terra dei fuochi riguardasse solo un comprensorio e non l’Italia tutta».

Non è la prima volta che si cimenta con ruoli difficili: dal vicebrigadiere Salvo D’Aquisto ucciso dai nazisti al caso di Daniele Barillà, vittima di un errore giudiziario, passando per Joe Petrosino, lo scandalo della Banca romana e le Brigate rosse. Lei è tra gli attori che hanno sdoganato la fiction dal ruolo di puro intrattenimento.

«I miei lavori contengono più o meno tutti lo stesso principio attivo: si basano su storie che raccontano il Paese e che dunque hanno una forte matrice di impegno civile. Come Mancini, ho tanta voglia di dire la verità e lo faccio davanti le telecamere. Non sono uno che scende in piazza, perché ritengo di avere un grande strumento per offrire al pubblico un messaggio. Detesto la possibilità di essere strumentalizzato dalla politica, per questo ho scelto un’altra strada per cercare di toccare le coscienze. Ma sono pronto anche a fare una commedia: l’Italia è il Paese degli stereotipi e ogni tanto cambiare strada fa bene».

Su una strada però ritorna: il Festival per presentare “Io non mi arrendo”.

«Ci torno volentieri. Non solo perché il 2013 portò fortuna alla fiction su Domenico Modugno, ma anche perché sono sempre stato uno spettatore fedele di Sanremo, fin da quando ero piccolo. Quest’anno sono impegnato a teatro e perderò le prime serate, però spero di rifarmi. Amo la musica e l’idea di questo contenitore che diventa una sorta di racconto popolare per note. Poi, da quando ho vestito i panni di Modugno, il mio occhio è più intimo, perché penso spesso all’uomo che nel 1958, con la sua “Nel blu dipinto di blu” fece volare l’Italia nel boom economico».

E se le proponessero di condurlo?

«Mi candido con piacere. Ma non prima del 2020».

Perché questa data?

«Il 2020 è cifra tonda, io compio cinquant’anni e il Festival giunge alla settantesima edizione. Numeri importanti che impongono una revisione della formula finora scelta».

Lei per cosa opterebbe?

«Non solo un festival canoro, ma il racconto dell’Italia attraverso le colonne sonore che hanno fatto la sua storia. Di più non dico, altrimenti se me lo chiedono veramente, che divertimento c’è?».

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