Alle radici della scrittura

Il dialogo tra Ruggero Cappuccio e Raffaele La Capria a Serramezzana

di CARMELA LUCIA

Nel quinto incontro di Segreti d'autore, Ruggero Cappuccio ha ospitato a Serramezzana Raffaele La Capria, il “guaglione chic” della letteratura italiana, noto per i romanzi ispirati al mare e al mito della “bella giornata”. Il dialogo inizia dall'analisi di quelli che sono i pesi specifici estremi della memoria di Raffaele La Capria, da un'inchiesta sulle radici della sua scrittura a partire da un luogo-emblema, Palazzo donn'Anna affacciato sul mare di Posillipo, il posto che segna sin dal '32, come scrive La Capria in False partenze, una pausa dal dolore: “una tregua agli affanni, una parentesi azzurra nel grigiore di quegli anni di guerra”, un luogo poi evocato anche nel secondo romanzo di Cappuccio Fuoco su Napoli (2010). Questo, anche nel '42 e negli anni della guerra, il luogo simbolo del grembo, la radice dei miti e delle storie di La Capria, con le “pietre corrose del palazzo antico”, abitato dai fantasmi dei marinai uccisi da una regina. Nel palazzo e nelle “viscere del tufo” nasce poi il mitologema della “bella giornata”, metaforicamente evocato nel luogo mistico della pace sottomarina, il luogo della memoria, sede di quelle che chiama “le immagini primarie” della sua scrittura (che si palesano sia nei romanzi, come L'armonia perduta, sia nei saggi, come Lo stile dell'anatra). La casa fatta costruire nel 1642 da don Ramiro Guzman, duca di Medina, per la moglie napoletana Anna Carafa, è una casa segnata da quella che lo scrittore definisce come la “porosità”, che poi diventerà per sineddoche la stessa porosità della città di Napoli, così come per Benjamin.

La Capria con toni anche malinconici rievoca poi, nel confronto con Ruggero Cappuccio, la Napoli che non esiste più, sostituita da una Napoli violentata dalla speculazione edilizia del laurismo rampante, da una città sfigurata dalla “marea delle case”, violata nel suo ventre.

A questi temi si intreccia poi un discorso sul concetto-chiave della sua saggistica, la “simpatia”, intesa come capacità di essere coinvolti dalla sofferenza dell'altro, una parola laica, per cui chi prova simpatia “è se stesso e un altro” (Gioberti). Da qui si innesta un dialogo fittissimo tra i due scrittori napoletani che è pari a un attraversamento, nel senso etimologico della parola dialogo, un “dià-lèghein”, dominato da mitologemi, e idee forti che legano, in una magica corrispondenza di ecolalie, anche le loro opere e la loro produzione artistica multanime.

Innanzi tutto la riflessione, antichissima, tra Natura e Storia, e tanto più visibile nella città partenopea per l'avvicendarsi di eruzioni, terremoti e pestilenze. La storia che deborda nella natura con il suo determinismo, la natura che, nonostante sia violenta e “matrigna”, spesso soccombe, perdendo la sua primigenia armonia e soprattutto la sua “identità”. Da qui inizia poi un viaggio quasi multisensoriale nell'opera così poliedrica di La Capria, un viaggio attraverso le immagini e i suoni dei suoi film. Le immagini rievocano i racconti sulfurei e fulminanti dei contadini del Sud di Carlo Levi, la ricerca di Rosi sulle tradizioni e la cultura della Lucania, fino alla ricostruzione della Napoli della DC e del laurismo inferocito della classe borghese, che La Capria definisce ironicamente come la “classe digerente”. Cappuccio riflette poi sulle epifanie che evocano le immagini dei film e dei documentari proposti: dalla casa di Capri, al cane Guappo, dall'aneddoto del canarino, alla rievocazione dei suoi compagni del Regio Liceo-ginnasio Umberto I, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Franceco Rosi e Giorgio Napolitano, a cui La Capria, come Arbasino, ha dedicato un ricordo non dimenticando Goffredo Parise, autore dei Sillabari, che, lo ricordiamo, insieme al suo romanzo Ferito a morte, è sicuramente tra i più importanti esemplari dei Premi Strega. Infine, il tema del dolore del tempo, incarnato nella ferita che attraversa la “bella giornata” e dalla Nemesis che punisce chi ha commeso la hybris; la metafora continua del mare e dell'elemento acquoreo così forte e fondante nei suoi scritti, come in Ferito a morte, che nel corso del dialogo, La Capria definisce “il primo libro che si svolge tutto sott'acqua, con tutta la meraviglia che il mondo subacqueo desta....”. Da qui Cappuccio sviluppa poi un altro tòpos centrale della poetica di La Capria, l'analisi della metafora del tuffo dal “saggio narrativo” del 1990 Letteratura e salti mortali, un importante scritto teorico, in cui La Capria riflette sulla sua poetica e soprattutto sul “sentimento della letteratura”.

©RIPRODUZIONE RISERVATA