IL GRAND TOUR

Alla scoperta dei cibi della tradizione: da Ramage a Strutt, elogio del Cilento

Le testimonianze del passaggio dei viaggiatori amanti della classicità in paesi e borghi del Cilento

Quando pensiamo al “Grand Tour”, istintivamente facciamo riferimento a Goethe e al suo “Viaggio in Italia” che costituisce l’emblema del viaggio culturale nella nostra Penisola in voga nel Settecento e nell’Ottocento, sebbene molti altri furono i cultori della classicità che cedettero al fascino del viaggio di formazione in Italia, all’epoca il più bello e desiderato, riservato ai rampolli della ricca borghesia e aristocrazia europea. Tra questi pochi furono gli ardimentosi che oltrepassarono la Piana di Paestum, una sorta di “Non plus ultra”, di colonne d’Ercole oltre le quali aveva inizio un Cilento misconosciuto e pericoloso ma da raggiungere a ogni costo per vedere le rovine di Velia, Palinuro e proseguire poi verso Sud, alla volta delle città magnogreche della Calabria e della Sicilia. Moltissime sono le testimonianze del passaggio dei viaggiatori amanti della classicità in paesi e borghi del Cilento, dettagliati i resoconti dei luoghi, visti con gli occhi a volte dello storico, altre dell'antropologo o del viaggiatore romantico: in ogni caso si tratta di reportage che ci restituiscono uno spaccato della nostra regione inedito e talvolta impietoso.

Nei diari di questi viaggiatori c’è tuttavia un filo rosso che lega le diverse esperienze di viaggio, costituito dalla squisita ospitalità che essi ricevettero, in tutti i contesti sociali in cui si trovarono. Lo raccontano nei loro diari, che ogni sera, al lume della lampada ad olio scrivono, riportando minuziosamente spostamenti e aneddoti interessanti della giornata trascorsa. È il 1828, quando Craufurd Tait Ramage, un letterato scozzese, amante del latino e del greco, intraprende il suo personale “Grand Tour” che farà da solo, a piedi e con un equipaggiamento minimo. Egli è uno dei pochi che osa sfidare i pericoli del brigantaggio e della difficile viabilità cilentana, priva ancora di strade carrozzabili e mezzi di locomozione. Ramage giunge nel Cilento nell’aprile del 1828. Ad Ascea è accolto da Teodosio De Dominicis e di lui scrive: «Ascea era un paese piuttosto povero e vi era una sola residenza degna di questo nome, quella del signore che mi aveva invitato. Credo che egli avesse accumulato le sue ricchezze in gran parte con il proprio lavoro; il suo contegno era decisamente superiore a quello delle tante persone che, fin qui, avevo avuto modo d’incontrare durante il mio viaggio».

Dopo aver notato la sobrietà della sua casa, manchevole di oggetti quotidiani considerati dal viaggiatore essenziali, e dopo aver elogiato la bellezza delle tre figlie del padrone di casa, che servono a tavola come da consuetudine di famiglia, Ramage racconta del pranzo che fu preparato per lui. La tavola è imbandita di vivande e di ogni ben di Dio, nonostante sia venerdì santo, e ciò non consenta, ai padroni di casa osservanti delle leggi della Chiesa, di consumare vivande a base di carne. Vengono servite pietanze a base di pesce, verosimilmente pesce azzurro, le famose alici pescate con la rete di menaica dalle cianciole ormeggiate giù alla marina, e un vino bianco di ottima qualità, corposo, che don Teodosio chiama vernaccia dal nome dell’uva con cui è prodotto. Nel giardino di don Teodosio, Ramage nota alberi con frutti e con questi, assieme a qualche dolce della tradizione cilentana, si dovette chiudere il pranzo che Ramage apprezzò molto.

A Centola, il giorno dopo, è accolto calorosamente al convento dei cappuccini dove consuma assieme a loro il pasto. Questi frati si rivelano «un’allegra brigata di compagnoni » e sembra non se la passino poi così male: mangiano due volte al giorno e in quella occasione vengono serviti una zuppa, dei maccheroni, una frittata e frutta di stagione. Da “Passando per il Cilento”, edito da Galzerano editore, sappiamo che nella primavera 1838, un altro viaggiatore, il diciannovenne inglese Arthur Jhon Strutt, percorre a piedi il Cilento costiero da Paestum a Sapri. È il 15 maggio quando giunge a Castellabate, dove viene ricevuto con la massima cortesia dal barone Perrotti, un vero signore che lo aspetta sulla porta col cappello in mano: il castello è bellissimo, belle le stanze, e i dipinti e le stampe pregevoli. Prima di sedersi a tavola, si affacciano e godono della stupenda vista di Licosa e del Mediterraneo. A mezzogiorno si siedono a tavola e qui Strutt descrive minutamente la successione delle vivande, un’apoteosi di cibi deliziosi sublimati dalla calorosa accoglienza cilentana: «Trovammo il menu veramente squisito. Ci fu prima servita la zuppa in un’enorme terrina. Ad essa rendemmo omaggio abbondantemente. Per stuzzicare il nostro appetito, seguirono fettine di salame, olive e acciughe. Vennero poi pollo arrosto e asparagi, dopo di che solennemente gustammo un pezzo di burro, conservato in una vescica, come il lardo in Inghilterra.

Dopo di che fece la sua apparizione un gran vassoio di fritto misto, e cioè verdure di vario genere, pezzetti di pane ed altre cose tutte fritte e quindi un piatto di sostanzioso pesce anch'esso fritto». Ma non finisce qui: il barone Perrotti, fece servire quaglie arrosto, insalata, formaggi freschi arance, fichi e un ottimo vino delle sue cantine che generò un'amabile conversazione. Si parlò di strade ferrate, di locomotive, di tunnel e delle aspettative che il progresso di lì a poco avrebbe portato, il barone parlò anche di politica estera, citando George Canning, Primo ministro del Regno Unito, e si brindò, fatto unico a Castellabate, alla salute di Sua Maestà la Regina Vittoria.

Mariella Marchetti