Via della Croce e gli amici con la passione del bere

Dal lavoro di fotografa a quello di imprenditrice: un’avventura nata per gioco sorseggiando il vino d’autore che fece impazzire anche Ernest Hemingway

Il destino mescola le carte e noi giochiamo, diceva Schopenhauer. E giocando, con un pizzico d’azzardo, Silvia Imparato è riuscita a costruire un’etichetta che non è solo sinonimo di grande qualità. Montevetrano è come la Birkin di Hermès per una fashion victim: un oggetto di culto che dall’Asia all’America si contendono i collezionisti. Lei un po’ storce il naso: sebbene l’azienda abbia scelto fin dall’esordio di optare per una produzione limitata (30mila bottiglie l’anno), «il vino non va tenuto in un cassetto, deve essere assaporato». E così sia, anche perché dal fondo del calice dove convivono con grazia Cabernet Sauvignon, Merlot e Aglianico, si sprigionano sentori sempre nuovi, capaci di raccontare la terra, le sue viti nodose, il sudore dei contadini, il fiuto infallibile di un enologo-star come Riccardo Cotarella, ma soprattutto le passioni di Silvia, che prima ancora di diventare la “signora del vino”, è stata la “signora dell’obiettivo”. Per certi versi, senza la fotografia, forse oggi Montevetrano non esisterebbe neppure e i ventisei ettari che si rincorrono lungo il castello medievale, le mura di argine e il bosco di castagni, sarebbero ancora coltivati solo a olio, frutta e nocciole per uso familiare. «È nato tutto per gioco nell’83. A quel tempo lavoravo come fotografa a Roma. Un signore rimase particolarmente entusiasta di un ritratto che gli feci e per ricambiare mi invitò a trascorrere una serata in una enoteca di via Della Croce che oggi non esiste più. Non avevo idea di quello che stava per accadermi. Una volta lì, mi resi conto che si trattava di un appuntamento esclusivo. La proprietaria, la signora Clara, ogni giovedì, a chiusura dell’enoteca, accoglieva un ristretto numero di appassionati di vino». Tra di loro, solo per citare qualche nome, c’erano Avignonesi ed Antinori, ed una sera apparve sulla soglia perfino Remì Krug, con tanto di Cuvèe di Champagne al seguito. Non è dunque difficile immaginare perché «i giornali si incuriosirono ed iniziarono a scribacchiare delle cose su questo buffo gruppo di persone che degustando si dilettava a tracciare una mappa culturale del vino e dei suoi produttori». Nell’85 nulla lascia presagire ancora il cambiamento: «Ero separata, lavoravo tra Roma e la Francia, la mia vita non era a Salerno». Galeotto fu un calice di troppo di Chateau Margaux (sì, proprio quello di cui Hemingway si innamorò a tal punto da darne il nome a sua figlia) bevuto in compagnia, tra gli altri, di Renzo Cotarella, fratello del blasonato enologo. «Eravamo tutti “bevuti”. I miei amici mi dissero: “Silvia, ma perché non fai vino anche tu?”. E io, di rimando, risposi: “Perché no. Venite tutti giù a Montevetrano a darmi una mano e vedrete che faremo scintille”». Passata la sbornia, il mal di testa della mattina seguente non cancellò il desiderio della trasferta: «Prendemmo l’abitudine di trascorrere i week end a Montevetrano, in una proprietà che i miei nonni acquistarono durante la guerra. La presenza di questo gruppo in una terra dove avevo trascorso l’infanzia mi diede la spinta. E così chiesi al mezzadro se voleva cedermi un ettaro di terreno». La prima annata (non commercializzata) è del ’91, ma la data per certi versi storica è quella del ’93. Silvia si lascia convincere da Lorenzo Sebasti a lanciare al mercato il guanto della sfida e invia tre bottiglie (annate ’91, ’92 e ’93) al celebre wine writer americano Robert Parker. Il Sassicaia del Sud, fu il giudizio della Bibbia a stelle e strisce del buon bere. E Montevetrano, prima che vino, fu status symbol. «Tutti, in ogni angolo del mondo, volevano Montevetrano ed i prezzi schizzarono alle stelle. Avevo paura di essere risucchiata dal successo. Questa non era più la terra dei nonni, dovevamo guardare al futuro». Silvia inizia a prelevare campioni di terra per le analisi, Cotarella indica quale e quanta uva va buttata dai filari. Non è stato facile. I contadini erano sconvolti e perplessi. «Non potevo patteggiare, dovevo impormi». Iniziò un percorso in salita molto stimolante: «avevo bisogno di imparare. Mi sono rimboccata le maniche con grande umiltà e ho studiato tutto quello che potevo. Il vino ti frega, è più forte di te, vive sotto il cielo». Ma da Montevetrano Silvia non è mai stata “fregata”: «Se ci sono riuscita è perché sono sempre stata circondata da amici straordinari». Mimì, Riccardo, Patrizia, Giulio. Sono il suo braccio destro in azienda, ma anche la spalla su cui posare il capo dopo una giornata di lavoro. Per raccontarsi, di fronte ad una buona bottiglia, l’emozione del futuro che verrà.(b.c.)

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