Vescovo in prima linea per difendere la legalità

Monsignor Riboldi ospite dell’istituto “Marconi” a Battipaglia

SALERNO. Una vita prima da semplice sacerdote e poi da vescovo sempre in prima linea quella di monsignor Antonio Riboldi. Contro la mafia e contro la camorra, per difendere la legalità e la giustizia. Nei giorni scorsi è stato ospite dell’istituto comprensivo “G.Marconi”, di Battipaglia, dove ha partecipato ad un incontro sulle “Religioni per la Pace”.

Monsignor Riboldi, per i suoi 90 anni compiuti di recente la Mondadori le ha chiesto di pubblicare un libro... «Il volume, fresco di stampa, si intitola “Ascolta si fa sera”, come la trasmissione radiofonica di radio Uno Rai, da dove per tre anni sono andate in onda le mie riflessioni. Mi accomodavo nella sala di registrazione, indossavo le cuffie e restavo in attesa di un cenno da parte dell’operatore, così da dare inizio a quel momento di condivisione ed entrare in contatto con gli ascoltatori che si trovano al di là del microfono».

Prima di approdare in Campania, lei ha lavorato al fianco di personalità come Carlo Alberto Dalla Chiesa e Piersanti Mattarella. Era la Sicilia dei giorni più duri della presenza mafiosa? «Mi inviarono nella Valle del Belice, nel trapanese. È stata dura. Una volta ad una processione, per le mie parole di condanna della mafia, tutti i parrocchiani andarono via ad uno ad uno. Rimasero solo i tre mafiosi che avevano fatto cenno a tutti di disertare il corteo. Parlai con quei tre loschi figuri, finché non furono loro ad andarsene».

Ha temuto per la sua vita? «Sempre. Ovviamente ho rischiato molto, ma il Signore mi ha sempre aiutato. Forse a salvarmi c’è stato anche il fatto che ero brianzolo, mi consideravano uno del nord, quasi uno straniero. Se fossi stato un siciliano probabilmente mi avrebbero già fatto la pelle, come è accaduto a tanti miei amici e non sarei ora qui a parlare per questa intervista».

Poi è stato inviato ad Acerra. «Erano dieci anni che non c’era un vescovo fisso. Nessuno voleva andarci. Mi hanno chiesto: te la senti? Vado, dissi. Sono passato dalle sopraffazioni della mafia alla camorra. Anche ad Acerra non è stato facile. Ma alla fine, con l’aiuto delle istituzioni, è stata la camorra ad andare via».

Tra tante storie di camorristi incalliti che ha conosciuto ci sono anche quelle di criminali che si sono convertiti? «Ce ne sono diverse. Ma per tutta la vita ricorderò quella di Carusiello. Scelse di mollare la camorra, di cambiare vita, di pentirsi. Ma commise l’errore di comunicarlo alla moglie che spifferò le intenzioni del marito al clan. Lo uccisero nel giro di pochi giorni».

Che cosa si sente di dire ai giovani? «L’età certo non mi ferma. A Battipaglia ho incontrato gli studenti dell’istituto comprensivo “Marconi” che mi hanno riservato una grande accoglienza. Ho ricordato loro che lottare per la giustizia è un dovere civile e cristiano al tempo stesso. Non bisogna arrendersi mai».

Li ha invitati anche a riflettere prima di agire. «Il mondo manca di riflessione. Parliamo, agiamo, mettiamo insieme cose, eppure non ci concediamo quel tempo giusto per “ripensare”, per riflettere su ciò che accade nelle nostre vite così da individuare la strada più giusta, quella che Dio ha scelto per noi».

Lei insiste molto sul valore del perdono. È solo un precetto cristiano? «Nel libro ricordo che a volte, seppur non intenzionalmente, capita di sbagliare; se alimentiamo la catena della vendetta diamo linfa a un circolo vizioso che non troverà mai fine. Abbiamo bisogno di persone che siano in grado di scindere il bene dal male e sappiano perdonare. È nell’amore e nel perdono che impariamo a essere dei buoni cristiani».

Ha paura della morte? «È come un tornare a casa. Dobbiamo guardare alla nostra vita non come a un qualcosa di materialistico, ma come a un viaggio che accompagna l’individuo nel suo ritorno a casa, il Paradiso, il luogo creato dalla mente di Dio, nostro padre, che al momento della morte ci richiama a sé, a casa».

Paolo Romano

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