Una “rottura” già ampiamente conclamata nella nostra società

Chi l’ha detto che la scissione deve essere vissuta per forza come un evento traumatico che provoca rammarico? Diciamo la verità, alcune divisioni hanno un vero e proprio sapore liberatorio. E senza...

Chi l’ha detto che la scissione deve essere vissuta per forza come un evento traumatico che provoca rammarico? Diciamo la verità, alcune divisioni hanno un vero e proprio sapore liberatorio. E senza ipocrisie la pensa probabilmente così lo stesso Renzi, che si è sbarazzato dei suoi antagonisti più ostinati. Ma sono soprattutto i cosiddetti scissionisti che hanno ritrovato ossigeno e possono giocare una partita vincente in un campo largo rappresentato da tutto quell’elettorato che non si riconosce in un partito con una sola voce, che ha tradito la sua matrice originaria, più che renziano addirittura renzizzato. Si tratta, per la verità, dell’allineamento di una situazione di fatto a uno schema formale, nel senso che un certo popolo di sinistra moderna e autenticamente riformista aveva già abbandonato il Pd. È stato così alle scorse tornate elettorali e referendarie. Esiste un vasto ambiente politico che in questa fase storica di globalizzazione e avanzamento del turbocapitalismo crede necessario il paradosso di un radicalismo socialdemocratico. In altri termini, il Pd ha totalmente smarrito il significato del riformismo socialista inteso come azione politica tesa a rendere più tollerabile il capitalismo senza necessariamente fare la rivoluzione. Tutte le riforme del governo degli ultimi 6 anni sono state improntate a smantellare pezzi dello stato sociale e di diritto che è stata la formidabile risposta europea al dualismo liberismo–comunismo del Secolo Breve. Ebbene, una volta invocando la libertà di mercato, un’altra alzando il tiro contro le tutele giuridiche ed economiche approntate dal nostro ordinamento, si è abbassato il livello di protezione dei cittadini dalle turbative economiche, finanziarie, demografiche e sociali. Si è perso di vista il concetto di dignità degli uomini e delle donne che solo il lavoro può promuovere. Le mancate risposte alle ricadute dell’automazione sul piano dell’occupazione, la mortificazione contrattuale ed economica dei rapporti di lavoro, l’accentuazione delle nuove povertà sono tutti temi inevasi dalla politica del vecchio Pd. Si aggiunga che l’interruzione del legame sentimentale con determinati mondi, tradizionalmente vicini alla sinistra (scuola, pubblico impiego, sindacati), aveva già segnato una frattura che la scissione quasi si limita a formalizzare. In quest’ottica, non è importante il numero delle tessere che verranno strappate, né il numero dei parlamentari che formeranno gruppi autonomi, ma è rilevante tutto ciò (ed è un’area amplissima) che già si sentiva fuori dal Pd, e in particolare fuori da alcuni suoi territori dominati da asfissianti apparati di potere. Ma fermarsi solo ad appurare questa divisione già conclamata nella società è il vero rischio della scissione, scarrocciando sulla immagine di un reducismo post comunista, gruppettaro e antagonista. Ecco perché il campo si deve allargare mescolando i Bersani, i Rossi, gli Epifani e gli Speranza con i Pisapia, i cattolici democratici, il civismo, il mondo del lavoro dipendente e autonomo nelle sue articolazioni, i ricercatori e in altri termini tutti quei corpi intermedi che sono stati frenati o obliati nella moda della “disintermediazione”.

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