Turn over a Salerno tra toghe “politiche” e nuovi burocrati

Michelangelo Russo andrà in pensione a maggio «Con la mia generazione va via la memoria»

SALERNO. Depositari della memoria. Per certi versi, irriverenti contestatori dell’establishment. Pronti a scendere in piazza tra i cortei dei lavoratori, a varcare l’ingresso delle fabbriche, negli anni in cui il piombo scatenava il terrore. E, soprattutto, portatori di una “visione rinascimentale” di un mestiere che ha già cambiato pelle e che sembra destinato a vivere evoluzioni altre, incardinandosi sui tecnicismi più che sul confronto, nel perimetro stretto della norma.

«Noi, invece, più che la legge del codice, cercavamo la legge dell’uomo». Michelangelo Russo, presidente di collegio della Corte d’Appello, con l’attuale presidente di sezione Claudio Tringali, è stato, a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta, tra i fondatori di Magistratura democratica, un laboratorio della giustizia di classe a cui parteciparono, tra gli altri, Giovanni Pentagallo, presidente del tribunale, Mariano De Luca, «magnifico magistrato e vecchio compagno di viaggio», Luigi Santaniello, «il vecchio saggio».

E un gruppo, altrettanto rivoluzionario, che pur non aderendo direttamente a quel progetto, ne condivise molti valori, come fecero Luciano Santoro, Antonio Frasso, Arturo Cortese. Dopo Frasso, Maddalena Russo, Aldo De Chiara e Franco Pasquariello, a marzo toccherà a Russo e a luglio a Tringali. Entrambi saluteranno Palazzo di Giustizia e le rispettive toghe perché da due anni a questa parte la politica governativa ha deciso di abbassare la soglia dell’età pensionabile dei magistrati da 75 a 70 anni.

Continua il turn over. E con esso, la trasformazione di una categoria professionale che sembra essere profondamente cambiata, non solo da un punto di vista anagrafico.

Se la giustizia fosse una fabbrica, sarebbe più che giusto. La scelta di anticipare l’età pensionabile andrebbe bene per mestieri nei quali la precisione manuale è indispensabile. Per i giudici, a mio avviso, vale quello che scrisse Hokusai, tra i più grandi rappresentanti dell’arte giapponese: solo a settant’anni aveva imparato a disegnare un’onda, sperava di farla ancora meglio a ottanta e si diceva sicuro che la perfezione l’avrebbe raggiunta a novanta. Questo per dire che non è vero che la vecchiaia è un patetico decadimento. Quando andò in pensione Nicola Bartoli, presidente della sezione civile della Corte di Appello, mi disse che trovava sprecata la sua esperienza di giudice, perché proprio a settant’anni si riconosceva un equilibrio e una umanità che non aveva avuto in precedenza. Accorciare la carriera dei magistrati significa sprecare l’aspetto umano della giustizia.

Si spieghi.

È una perdita per l’Italia e non si capisce in nome di quale risparmio si possano creare opportunità per i giovani. Non sono cinquecento magistrati congedati anzi tempo ad aver aperto un varco a una situazione occupazionale che poteva essere diversamente gestita. E questo non lo dico perché mi disinteresso delle loro sorti, anzi. Quando ero consigliere giuridico prima del ministro Pecoraro Scanio e poi del ministro Prestigiacomo, mi sono battuto per coinvolgere i migliori giovani avvocati nel recupero dei crediti per lo Stato, consentendo loro, attraverso una piccola leggina, di essere cooptati come ausiliari dell’avvocatura di Stato, che essendo fatta solo di trecento professionisti, non riesce a costituirsi parte civile o a inseguire i crediti maturati. Ma i depositari della memoria sono pochi.

La classe dei suoi colleghi che è già andata via o che si appresta a farlo, ha questa caratteristica?

Assolutamente sì. Abbiamo avuto una visione rinascimentale del mestiere, perchè fa parte della nostra educazione giovanile il concetto della necessaria universalità dei saperi. Non puoi essere detentore del potere senza conoscere almeno i rudimenti di altri saperi. Bisogna conservare un contatto personale e continuo con la realtà, ed avere il coraggio di affrontarla.

Oggi non è più così?

I giudici più giovani sono dei grandi tecnici, preparatissimi. Ma è come se non avessero coscienza della varietà del mondo e della fallosità dell’agire dell’uomo. Tutto questo è anche il frutto di una assenza di dialogo all’interno del corpo giudiziario, che negli ultimi due decenni si è chiuso, senza sviluppare un sano contrasto democratico. Come se il magistrato avesse fatta propria l’angoscia di voler apparire assolutamente indipendente, per cui il dibattito si è incentrato unicamente sull’organizzazione e sul miglioramento del servizio. Credo che esista maggiore fermento culturale nelle Poste e telecomunicazioni che nel corpo giudiziario di oggi.

Lei però è stato tra i fondatori di Magistratura democratica. Quell’esperienza non è stata arricchente?

È stata un’esperienza straordinaria. Pensi, ci chiamavamo “compagni”: nessuno oggi oserebbe dirlo. L’obiettivo era dedicare grande attenzione al progresso ed alle esigenze del sociale. Un esempio su tutti: era il 1980 e mentre i colleghi venivano uccisi dal terrorismo sulle strade di Roma e di Milano, organizzammo un convegno sul tema con il più importante esponente italiano di filosofia del diritto, Luigi Ferraioli, che era considerato un vate della sinistra, soprattutto dai giovani. Non avevamo chiesto in tempo il permesso per affiggere i manifesti e così ci mettemmo a girare, di notte, a bordo di due auto, con i secchi di colla, utilizzando il volontariato di alcuni ex esponenti extraparlamentari. Così, con i cappucci calati sul volto, riuscimmo nel nostro intento. Mi dice quale magistrato oggi farebbe una cosa del genere? Noi eravamo quelli che entravamo nelle fabbriche e nei quartieri per parlare con la gente, perché bisognava capire quelle che erano le loro esigenze e le loro aspettative.

E come eravate visti?

Quasi come brigatisti. Ricordo nitidamente che dopo l’uccisione del procuratore Giacumbi temetti seriamente di subìre una perquisizione domiciliare, perché l’ignoranza di alcuni confondeva una visione alternativa della giustizia con la follia del terrorismo. Arrivai prestissimo sul luogo del delitto, semplicemente perché abito in zona e un vice questore dell’epoca me ne chiese conto e ragione. Tornai a casa e decisi di gettare in un cassonetto una vecchia pistola lanciarazzi, per non correre il rischio di fraintendimenti. Il sospetto ci gravava addosso, ma sono stati anni bellissimi, con delle emozioni che fanno parte di un corredo che purtroppo non si può più trasmettere ai giovani magistrati. Spero che non abbiano i nostri stessi timori, il disorientamento che è lo stesso che abbiamo vissuto ai tempi della camorra emergente, quando i morti erano a decine per le strade.

Prima faceva riferimento a una generazione di tecnici o di burocrati: da cosa dipende?

Credo che la colpa sia anche dell’Associazione nazionale dei magistrati, che ha da tempo smesso di essere un luogo di confronto e dibattito. Negli ultimi due anni mi ha colpito molto il fatto che le iniziative più gettonate siano state la festa di Natale e quella dell’inizio delle vacanze estive. Noi, invece, ci scannavamo nelle assemblee. Ma il decadimento ha radici antiche, forse risale agli ultimi due decenni, con il berlusconismo. I giudici hanno avuto paura di essere tacciati di politicizzazione e questo li ha portati all’assopimento dei contrasti culturali, essenziali per la democrazia. Sopire il dibattito è stato micidiale, perché la difesa corporativa ha finito con il difendere i peggiori di noi sotto il profilo umano e professionale.

L’inizio della débacle?

Con Tangentopoli. Lì si è verificata la mutazione profonda. Magistratura democratica era essenzialmente mossa da una visione intellettuale improntata al garantismo, ma tanti di noi si sono lasciati in qualche modo condizionare da una voglia di giustizia sostanziale su quella degenerazione evidente che lo Stato stava attraversando tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta.

La cosa che ricorda con maggiore intensità?

La lotta decennale contro l’autoritarismo dei capi, vecchi magistrati che erano sicuramente brave persone, ma culturalmente lontane un secolo. Furono anni di tensioni con i vertici, che forse un pò sgomenti vedevano l’arrivo del nuovo che spazzava la contiguità tra la politica e le forme apicali dell’organizzazione giudiziaria. Erano magistrati vecchio stampo, che consideravano la patologia sociale solo relegata alle classi meno abbienti. Non so fino a che punto ci siamo riusciti, ma quello che è certo è che a Salerno, come in altre parti d’Italia, i giudici hanno portato l’attenzione sui livelli di potere un tempo giudicati intoccabili. Di questo i giovani colleghi non hanno alcuna cognizione, perché ritengono sia del tutto naturale, anche se non è così. C’è stata invece una lunga lotta che ha portato alla persecuzione dei magistrati che la pensavano diversamente. Ma la storia è ciclica e ritornante, come sostiene la filosofia orientale. Se la politica oggi è debole, come del resto lo è l’economia, sta nascendo un potere che al suo interno sta costruendo le differenze di classe. Vedo nell’omologazione dei magistrati nascere una serie di intrecci e di potentati sempre più immuni al giudizio critico. Si formano dirigenze che legano strutturalmente a sè cordate di magistrati proni al volere del potente di turno.

Sta dicendo che oggi non c’è più voglia di mettere in discussione i poteri forti?

Adesso è veramente difficile vedere muovere contestazioni alle gerarchie dirigenziali. Per noi era pane quotidiano, una sfida permanente. Ma oggi dove lo trova un magistrato come Luciano Santoro che puntava il dito accusatorio anche in pubblico, facendo tremare le cattive coscienze e le pessime manifestazioni di devianza del potere giudiziario? È come se il coraggio, tra le qualità che fanno parte del corredo di un giudice, fosse svanito, e di converso abbiamo una politica impaurita che forse trema eccessivamente di fronte ai tribunali. Tutto questo, in un regime democratico, non è possibile.

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