il processo

Termovalorizzatore, ecco perché la nomina di Di Lorenzo era legittima

I giudici della Corte d’appello: «De Luca e i dirigenti comunali assolti perché non ci fu alcun atto arbitrario»

SALERNO. Sono racchiuse in 113 pagine le motivazioni con cui la Corte d’appello ha assolto Vincenzo De Luca, Alberto Di Lorenzo e Domenico Barletta dall’accusa di abuso d’ufficio per la nomina di Di Lorenzo a project manager del termovalorizzatore. Sono state depositate ieri dal presidente Michelangelo Russo e dagli estensori Elvira Castelluzzo e Vincenzo Ferrara, e smontano pezzo per pezzo le accuse contenute nella sentenza di condanna in primo grado.

La figura giuridica. Per la corte è «priva di fondamento giuridico» l’idea che la nomina abbia creato ex novo una figura non prevista dalla legge. «Una cosa – si precisa – è la creazione dell’organo, che deve trovare la sua fonte nella legge; tutt’altra cosa sono gli atti di nomina delle persone fisiche che lo compongono». E la nomina a project manager «non costituisce creazione ex novo di una figura non prevista, ma un atto di assegnazione all’ufficio di supporto del rup», il responsabile unico del procedimento. E se per il tribunale quella figura era un mero doppione del rup (talché la nomina non avrebbe avuto altra finalità «se non quella di consentire illegittimamente a Di Lorenzo di partecipare alla ripartizione del compenso») per i giudici dell’appello «non è nemmeno lontanamente ravvisabile alcuna sovrapponibilità», tanto più che «la nomina dell’imputato riguardava esclusivamente la prima fase del procedimento».

I titoli di studio. La carenza di motivazione, che il procuratore generale Antonella Giannelli aveva individuato come il vero vulnus della delibera di nomina e in cui i giudici di primo grado rinvenivano l’elemento sintomatico del dolo intenzionale, è per la Corte insussistente sia sotto il profilo oggettivo sia riguardo all’elemento soggettivo della scelta del funzionario. Dal prino punto di vista la motivazione risulta implicita nell’attribuzione dei compiti a ciascun componente del gruppo di lavoro e «le ragioni della nomina risiedono proprio nella necessità di inserire nel gruppo soggetti ritenuti idonei in relazione ai molteplici settori di intervento. Sull’altro versante si specifica che «non sussisteva alcun obbligo giuridico di motivare la scelta del Di Lorenzo rispetto ad altri potenziali “aspiranti”». Si censura inoltre come «del tutto fuori luogo la visione semplicistica e formalistica legata al titolo di studio» posto che «la professionailità e le competenze del Di Lorenzo risultano dagli incarichi dirigenziali in precedenza assunti», per cui si può concludere che «la scelta operata non pare nemmeno connotata da arbitrarietà».

I poteri derogatori. Con la premessa che la normativa generale non si ritiene derogata, la Corte non manca di sottolineare che la prima sentenza non avrebbe tenuto in conto i poteri commissariali attribuiti a De Luca per l’emergenza rifiuti. Che il potere derogatorio potesse spingersi fino alla creazione di figure “non previste dalla legge” risulterebbe avallato dall’ordinanza del 1999 che consente il conferimento di tali incarichi; in secondo luogo è stata ritenuta ingiustificata l’interpretazione restrittiva del tribunale nella parte in cui consente la creazione di figure atipiche solo nei casi di comando e distacco, mantenendo il divieto nell’ipotesi ordinaria di soggetti già incardinati nell’Amministrazione.

Il peculato. Escluso già dalla sentenza di primo grado, il peculato era stato oggetto dell’appello del pubblico ministero Roberto Penna, non condiviso però dalle conclusioni del pg Giannelli. La sentenza d’appello è tranciante nell’affermazione che nel caso in esame «giammai sarebbe configurabile il reato di peculato». È di fatto l’unico punto in cui non ci si discosta dall’orientamento di primo grado, richiamando la giurisprudenza di legittimità secondo cui l’appropriazione, elemento integrante del reato, non sussiste quando la disposizione di risorse pubbliche sia avvenuta a titolo di corrispettivo di una prestazione resa in favore della pubblica amministrazione. Non può inoltre parlarsi di ingiusto profitto, perché «la somma stanziata è stata suddivisa nel rispetto delle aliquote prefissate» in base alle prestazioni.

Il dolo. Anche a voler ritenere l’atto di nomina illegittimo dal punto di vista amministrativo, mancherebbe il dolo necessario perché possa esservi una sanzione penale. La ricostruzione del primo grado, che questo dolo lo aveva inveec rinvenuto, è bollata come «mera enunciazione, astrattamente plausibile, ma priva nel concreto, di ogni elemento probatorio di supporto». Una “bocciatura” contro cui la Procura già prepara ricorso in Cassazione.

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