Storie di lavoro andato in fumo 

Parlano gli stranieri licenziati da “Sele Ambiente” dopo il rogo: «Era il nostro unico sostegno»

«Rubano il lavoro», dicono di solito gli italiani a proposito degli uomini dalla carnagione e dall’accento diversi, ma a Battipaglia, dopo il trambusto “Sele Ambiente”, sono proprio gli impieghi dei marocchini e rumeni ad andare in fumo, come l’11 giugno le balle di rifiuti. C’è chi dice che gli extracomunitari «non vogliono far nulla», ma gli ex operai dell’impianto di rifiuti di via Bosco II il pane se lo sudavano, e ora sognano «un lavoro per ripartire». Sono le storie dei sei operai che, a causa dell’incendio che ha distrutto la fabbrica dei Meluzio, un lavoro non ce l’hanno più.
«Avrei voluto costruirmi un futuro e mettere su famiglia, e invece le mie speranze vanno in fumo»: lo dice Faty Jalal, 36 anni, originario del Marocco che è in Italia da nove anni. Abita a Battipaglia con la mamma e un fratellino, e in “Sele Ambiente” c’era approdato lo scorso anno. «Ero l’unico a lavorare e a guadagnare qualche spicciolo nella mia famiglia - spiega Faty - e quell’impiego l’ha perso tutta la famiglia».
Il pensiero corre subito ai propri cari: accade anche a Filali El Habib, che ha 44 anni e in Italia ha passato gli ultimi otto. «Una mazzata», dice: per lui è doppia, perché tra i licenziati c’è anche il primogenito ventunenne. A casa pure una moglie e altri due figli, di 2 e 15 anni, da mantenere: «Ho paura - confessa Filali - e spero che arriverà per noi quel che è meglio». In “Sele Ambiente” ci lavorava dal 2012: «Quando perdi il posto, ti senti male», conclude.
C’è chi non s’arrende: è il caso di Younes Khalis, 33 anni, arrivato in Italia sette anni fa. Lui, a Battipaglia, vive da solo: «I miei fratelli e mia sorella sono rimasti in Marocco, e una parte dei soldi gliela mandavo». Ragion per cui «perdere il lavoro vuol dire togliere qualcosa pure a loro». E per la famiglia si lotta: «Non ci avviliamo per quel che è successo; dobbiamo cercare un altro impiego, dobbiamo continuare a combattere».
Situazione simile a quella di Mehdi Gondy, che ha 37 anni e pure vive da solo. A Casablanca ci sono i suoi genitori e i due fratelli: «Anche io mandavo loro qualcosa», racconta Mehdi, in “Sele Ambiente” da quattro anni. E parla del «buio che c’è quando, insieme al lavoro, perdi la speranza», e auspica un «nuovo punto di partenza, un altro posto di lavoro da cui ripartire».
Il più amareggiato è Juan Afresine: è rumeno, e in Italia c’è arrivato nel 2004, quando aveva 44 anni. Ora è un cinquantasettenne, e gli ultimi sei anni li ha trascorsi nell’impianto di via Bosco II: ha paura, perché alla sua età «è difficile trovare un lavoro». E al suo amico, che gesticola per fargli comprendere le nostre domande, visto che ha qualche problema all’udito, dice con voce tremula: «Non mi sento bene; ci sono delle cose che sognavo di poter fare con i soldi del lavoro, e invece adesso non so che fare».
Una stretta di mano, un sorriso stentato e gli occhi lucidi, e vanno via. Con il cuore in fiamme e il lavoro in fumo.
Carmine Landi
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