«Speriamo si trovino in un posto migliore» 

Choc e tristezza per il marito e il fratello di due ragazze inghiottite dal mare Vicino a loro tanti richiedenti asilo, l’Arci e le attiviste di Casa delle Donne

SALERNO. Forse, prima di salire su quel gommone si sono guardati per un’ultima volta. Dovevano essere poche miglia di mare dopo un lungo viaggio dalla Nigeria e sei interminabili mesi nei campi libici. Forse si sono dati forza per l’ultima volta, prima che Osaro Osato, incinta da pochi mesi, morisse annegata. E, lui, suo fratello, l’ha vista risucchiare dal mare e, poi l’ha rincontrata soltanto una volta sbarcato a Salerno dalla nave Cantabria, nella sala mortuaria del cimitero. Stretto in una felpa rossa, gli occhi segnati da interminabili ore di dolore, è alla cerimonia funebre insieme ai pochi parenti delle migranti che hanno un nome. In 21, invece, rimangono senza identità. «Siamo partiti da soli, volevamo arrivare in Italia e rimanerci per studiare». Mentre parla, a disagio davanti a voraci obiettivi e registratori, si capisce che sta mettendo tutta la volontà possibile per non piangere: «Siamo partiti perché in Nigeria non si vive bene, la situazione non è buona». Osaro e suo fratello – che di sé dice solo di avere 18 anni – hanno lasciato nel loro Paese tre fratelli e la mamma. «Era fiera di mia sorella», dice con il filo di voce che resta. È lui che ha dovuto avvisare la famiglia della morte di Osaro, che ha dovuto spiegare che per la piccola Osaro, quel viaggio verso un futuro migliore è naufragato nel Mediterraneo. Non ricorda quasi nulla di quelle ore, solo tanta confusione. Ha, invece, ben impresse nella mente le violenze alle quali ha assistito nei mesi trascorsi in Libia, un posto «no good», dove «si spara in continuazione e si uccide anche per delle sciocchezze», dice con lo sguardo perso nel vuoto.
«Come può stare una persona che ha appena perso la moglie? Prega solo che ora si trovi in un posto migliore», dice scuotendo il capo il marito di Shaka Marian, l’altra migrante identificata e anche lei in attesa di un bimbo. Ha saputo della morte della moglie solo una volta arrivato a Salerno. Gli scafisti, infatti (testimoniano alcune Ong impegnate fino a pochi mesi fa nei soccorsi), all’imbarco sui gommoni separano le donne, che si posizionano al centro, e poi, attorno gli uomini. E da quel momento devono iniziare a sperare di arrivare vivi e di ritrovarsi salvi nello stesso posto. Compatte, una accanto all’altra, non sono volute mancare alcune delle giovanissime richiedenti asilo, vittime di tratta e affidate all’Arci salernitano. Vengono tutte dall’Africa, una accanto all’altra, guardano fisso verso le ventisei bare si stringono: ognuna di loro sarebbe potuta essere una di loro. Solo il destino ha deciso diversamente. «Loro ce l’hanno fatta, è per questo che hanno espresso il desiderio di esserci», spiega Francesco Arcidiacono, coordinatore dei progetti per l’accoglienza per i rifugiati dell’Arci Salerno che le ha accompagnate.
«Dobbiamo stare insieme e unirci davanti a queste nostre sorelle», considera Njie Bully, arrivato dal Gambia a Salerno 3 anni fa. Quando le 26 bare delle giovani migranti sono state calate dal ponte della Cantabria lui era al porto come mediatore culturale. «Loro sono nostre sorelle e sono morte così, per un motivo assurdo, ecco perché non si poteva non essere qui», spiega Mumin Alhassan. Timidamente, senza riuscire a smettere di piangere, una signora, arrivata 40 anni fa dall’Etiopia, depone 26 crisantemi bianchi su ciascuna bara. «Sono le nostre figlie, le nostre sorelle», sussurra. Oltre ai tanti migranti, qualche cittadino e alcune scolaresche, hanno partecipato alla cerimonia funebre anche l’associazione Casa delle Donne e una delegazione del movimento delle Donne in Nero. All’esterno del cimitero, hanno esposto alcuni cartelli con scritto: “Contro tutte le stragi di guerre e terrorismo”, “Libertà di vita per chi attraversa il Mediterraneo”, “L’Italia non sovvenzioni i centri di detenzione in Libia”. «Siamo qui oggi – spiega Eleonora Meo, del Collettivo 105 della casa delle Donne di Napoli – per dimostrare la nostra solidarietà e per manifestare la nostra rabbia, come donne, contro questo sistema di violenza che in tutti i modi ci umilia, ci subordina e ci uccide», precisa. «Chiediamo che il governo smetta di fare accordi con Paesi che sono fuori dalla Convenzione di Ginevra o come la Libia», continua Chiara Iovinella, anche lei del Collettivo. Mentre Flavia Brescia sottolinea la necessità di far ritornare le «Ong nelle operazioni di salvataggio e che ci siano meno poliziotti e militari e più associazioni di donne agli sbarchi».
Eleonora Tedesco
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