LA FEDE

San Matteo, festa nel segno dell'identità

Nella ritualità e nella ricerca forsennata dell’identità che si compatta, un giorno l’anno, per far evaporare ansie e paure

SALERNO - Ci siamo. Salerno si prepara a scendere in piazza. Con il vestito buono, quello della festa. Con il maquillage da gran sera. I cellulari messi sotto carica per le dirette Facebook e le storie di Instagram. Il prosecco al solito bar alle 12. La milza alle 14. La scazzetta di Pantaleone a seguire. Veloci, che non si trova posto, nella città blindata. Che già alle 16 bisogna capire dove parcheggiare per immergersi nel grande flusso di gambe, suoni, odori, capelli a sventolare e palchi, prime file, postazioni, il balcone dell’amico dell’amica, la terrazza più cool o il dedalo di vicoli, quelle budella antiche nelle quali stringersi insieme. Per ritrovarsi. Nella ritualità, nel rito, nella ricerca forsennata dell’identità che si compatta, un giorno l’anno, per far evaporare ansie e paure. 21 settembre. San Matteo. L’evangelista, presunto autore di uno dei Vangeli più intesi. L’uomo del discorso della montagna. La magna charta del regno annunciato da Gesù fin dall’inizio del suo ministero pubblico. L’appello alle folle incantate di Israele. Il canto e il cantore dell’ebraismo del I secolo. Matteo l’evangelista, che respirò in bocca a Pasolini povertà, dolore, amore, speranza, un Gesù carico di tristezza in cui riversare “la nostalgia del mitico, dell’epico, del tragico”, spazzando via “l’Italia della censura più ottusa e violenta, l’Italia andreottiana che aveva condannato Umberto D di De Sica e l’Italia dei magistrati moralisti e censori alla Spagnuolo”, per citare lo storico Guido Crainz. Matteo bronzeo e bifronte, nelle forme barocche di quella cripta del Duomo immaginata dall’architetto Fontana, per consentire ai fedeli, da qualsiasi angolazione si trovino, di guardarlo in faccia. Sempre. Matteo alato, che vive nel libro di Ezechiele e in quello dell’Apocalisse, che Caravaggio abbraccia d’arancio e buio, mentre l’angelo lo sorvola in una spirale di bianco. Matteo il gabelliere. Anzi. Il pubblicano. Peccatore usuraio. Peccatore e venerante imperatori. Matteo convertito, come in una scena di osteria, nell’allegoria di tagli di penombra e squarci di luce che investe tutti gli uomini pur lasciandoli liberi di aderire o meno al mistero della rivelazione. 21 settembre. San Matteo. Patrono. Icona di un gonfalone conteso. Idolo della sua terra e di chi la abita, che gli affida speranze, promesse, i dolori di una svolta che non arriva, la fiducia in quello che verrà, perchè verrà. Patrono padre e padrone (Salerno è mia e io la difendo) di una città, e di chi la abita, che di un padre (e di un padrone) ha sempre avuto bisogno. Come di un metronomo di vita, come un rosario antico da sgranare, nei vapori di un bar all’alba, nei sudori degli stadi, nei livori da 140 caratteri, nei salotti che ancora profumano di rosolio e nel fetore di certe sagrestie, nella polvere dei faldoni degli uffici e nell’aceto che ti prende alla gola, ogni 21 settembre, in quel centro storico bipolare, dove i giovani cercano l’oblio, e gli anziani, che i ricordi se li tengono, perchè non saprebbero fare altrimenti, resistono come furieri. 21 settembre. San Matteo. Simbolo di una identità fragile, sospesa tra il fervore religioso di pochi, il folklore di tanti, l’ansia struggente di ritrovarsi comunità di molti. Matteo trascinato nelle polemiche della provincia gretta, della città sul mare senza mare, della comunità che sputa sull’oro dei suoi poeti e, volgarmente, li ignora. Matteo conteso, tra applausometri, inchini, zucchero filato e puzza di violette. Matteo abusato, nelle parole che si rincorrono nei rioni dove il suo Vangelo mai è veramente arrivato. Matteo amato. Da inseguire nelle sue peregrinatio. Da spiare sotto archi e fiori e preghiere. Da guardare in faccia, nella doppia faccia, per affidare il cuore, lo spirito, forse. Matteo assopigliatutto. Che unisce le bocche unte di milza a quelle profumate di rossetto. Le mani sporche di sughero a quelle adamantine che non conoscono il peso del lavoro. Le chiome canute e quelle rasate. I piedi che corrono veloci verso domani e quelli che, sagomandosi il destino, lo vorrebbero riscrivere. Matteo e l’identità. Il santo, il suo doppio e la sua città. La città, Salerno, che cerca ancora, con affanno la sua identità. E in lui, solo in lui, tutta si ritrova. Senza una radice vera, alla ricerca di un padre e di un padrone, più forte di archistar e ridisegno urbano, di promesse di futuro e di incarichi. 21 settembre. San Matteo del popolo. La devozione religiosa. Il canto della preghiera. Gli occhi fissi alle statue in processione. Un ritmo che scandisce la fede. Quella vera e quella indossata, come il vestito buono della festa. Come le passerelle, le terrazze, gli applausometri, le prime file, le primogeniture. 21 settembre. San Matteo iatrogeno. Che l’identità è una cosa seria, forte. Che passa per pagine macinate e parole dette negli occhi, nei confronti con i maestri e con chi ti capita a tiro. Per l’indignazione, il senso critico, quello sano, che ti porta a smontare ma per ricostruire sulla base delle idee, se ci sono. Perchè come diceva La Capria, un’identità forte è una finestra sul mondo, capace di includere in sé anche le altre. Se è debole, invece, si limita a glorificare se stessa, rinchiudendosi nei confini del localismo. Tensione a guardare alto. Altrove. Attraverso. Di lato. Nelle fessure. Ovunque e fuori dai perimetri. 21 settembre. San Matteo. L’uomo, il gabelliere, il santo, il padre, il padrone, l’icona, il gonfalone. Il simbolo di fede che dice e scrive, dice e scrive per chi lo legge e lo ascolta: “Voi siete il sale della terra; ma se il sale diventa insipido, con che lo si salerà?”. Buon 21 settembre. Buon San Matteo.