Salerno e Amalfi nei versi di D’Annunzio

Citazioni in “Merope”, libro quarto delle Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi, e nella Canzone del Sacramento

di PAOLO ROMANO

Nel quadriportico della Cattedrale di Salerno, alla sinistra della maestosa porta di bronzo, c’è una piccola lapide marmorea con l’iscrizione: “Quei di Salerno il lor lunato golfo, gli archi normanni, tutta bronzo e argento la porta di Guïsa e di Landolfo aveansi in cuore...”. Non c’è la firma in calce, ma sono versi di Gabriele D’Annunzio. Il vate degli italiani volle celebrare le glorie salernitane e amalfitane in Merope, il libro quarto delle Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi.

Composto nel 1912 nell’esilio francese, Merope raccoglie una serie di componimenti in terzine sulla guerra di Libia, già pubblicati da D’Annunzio tra l’ottobre del 1911 e il gennaio del 1912 sul “Corriere della Sera” con il titolo di “Canzoni delle gesta d’oltremare”. Un libro di poesie che, al di là dell’enfasi nazionalista, è stato rivalutato anche dalla critica per il cospicuo e sapiente lavoro di erudizione che sottende. Infatti, proprio parlando di Salerno, delle vicende della conquista normanna, come anche della storia della Repubblica Amalfitana, D’Annunzio dimostra di conoscere molti particolari, ben oltre lo stereotipo.

I suoi versi eternati nel marmo del Duomo sono soltanto quelli iniziali, in Merope invece si continua ad elogiare la storica cattedrale, i committenti e la città: “... e l’arte e l’ardimento onde tolse lo scettro ad Alberada Sigilgaita dal quadrato mento. Ma quei d’Amalfi, cui la lunga spada era misura, a patria più lontana andavano; ché già s’avean contrada e forno e bagno e fondaco e fontana per tutto, e Mauro Còmite dal Greco mattava il Doge al libro di dogana...”. Più avanti, il racconto delle gesta gloriose si fa invocazione supportata dalla nostra storia medievale: “O Salerno, nel duomo dove offerto ti fu da Gian di Procita l’avorio e l’oro sovra i marmi di Ruberto, nell’ombra dove il settimo Gregorio grandeggia, non fanal di capitana, non stendardo d’emiro pel mortorio, non insegna, non spoglia musulmana hai, che tu orni in nome de’ tuoi grandi al tuo giovine eroe la coltre vana? Non egli è su la bara che inghirlandi; ma tu lo vedi, quasi fosse apparso. E lo chiami per nome e l’addimandi. Verginità del primo sangue sparso! Ne bevano le sabbie un più gran flutto; ma pur quel primo che sembrò sì scarso risplenderà sul giubilo e sul lutto più vermiglio e più fervido a Colei che sa pianger gli eroi con viso asciutto”.

Nella “Canzone del Sacramento” – il cui argomento è tratto da un carme d’ignoto che narra l’impresa compiuta sopra il re arabo Timino da una lega tirrena formata per una guerra religiosa che fu il preludio delle Crociate - si legge del momento solenne della battaglia: “Rosse le prore come tinte in mosto avea Salerno, d’indaco Gaeta, d’oro Amalfi alla Vergine d’agosto; ché que’ mercanti a battere moneta intendevano sol per far naviglio e cambiavano in gómene la seta”.

Sempre in Merope, non più in versi ma come un assaggio della sua erudizione, nel ricco apparato di note, D’Annunzio si dilungherà ancora sui tesori di Salerno, a proposito della cappella delle Crociate o di San Gregorio VII: “In Salerno, nella Cattedrale di San Matteo, la cappella a destra dell’altar maggiore fu fondata da Giovanni di Procida. La cupola è di musaico e l’altare è di legno e di avorio. Nel musaico il donatore è in ginocchio dinanzi all’Apostolo (...). Nella stessa cappella sorge il mausoleo del grande Ildebrando, di papa Gregorio VII, dopo la cacciata accolto in Salerno da Roberto Guiscardo”.

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