IL FATTO

Rivolta in carcere a Salerno, trasferiti 24 detenuti

I tumulti nella prima sezione dopo lo stop ai colloqui con i familiari: la ribellione di Fuorni estesa in altri penitenziari italiani

SALERNO - Sono 24 i detenuti trasferiti in altre carceri fuori regione, che sono stati ritenuti i capi della rivolta che c’è stata nella Casa circondariale di Salerno nel pomeriggio dello scorso 7 marzo. Sono queste le prime conseguenze immediate e dirette della protesta che vide coinvolti circa 150 detenuti, che per alcune ore misero a ferro e fuoco la struttura penitenziaria, salendo finanche sul tetto e distruggendo buona parte della prima sezione. I trasferimenti sono già avvenuti nei giorni successi la sommossa, in silenzio e appena la situazione è tornata alla normalità.

L’attenzione, comunque, resta sempre alta, così come la possibilità che possa tornare la protesta. Si è deciso in questo modo, probabilmente, per dare un esempio e scoraggiare comportamenti emulativi. La linea del pugno duro e non una strategia più soft, come hanno suggerito anche i sindacati. Che, tra le altre cose, hanno pure proposto che il regime aperto non sia concesso a tutti i detenuti ma solo ai più meritevoli. L’inchiesta - per accertare le responsabilità e ricostruire esattamente la dinamica della ribellione che per diverse ore fece temere anche il peggio - è ancora in corso, e non s’esclude che possano essere adottati, quando saranno terminate le indagini, altri provvedimenti. La protesta di Salerno, nata per opporsi al blocco delle visite e chiedere l’indulto in virtù dell’emergenza sanitaria del coronavirus, fu la prima di una serie di rivolte che, nei giorni successivi, si verificarono in altri penitenziari italiani. Insomma il carcere cittadino è stato, in un certo senso, l’apripista di una protesta che è diventata, dopo poche ore, nazionale.

Le avvisaglie dei tumulti, dettate dalla scelta di vietare i colloqui con i familiari, c’erano state sin dalla mattina. La protesta, però, era esplosa, in tutta la sua violenza e drammaticità, nel primo pomeriggio del 7 marzo. Facilitati e incoraggiati dal “regime aperto”, in base al quale i detenuti non sono chiusi in cella ma possono girare liberamente per l’area di loro competenza, intorno alle 15 era iniziata inizio la sommossa. Gli “ospiti” della prima sezione, in cui sono reclusi i detenuti per reati comuni, imbracciando armi rudimentali, ricavate dai “piedi” delle brande, erano passati dalle parole ai fatti. E avevano cominciato a distruggere tutto ciò che avevano trovato d’avanti. Inutili erano stati i tentativi di riportare la calma. Anzi, la protesta era diventata ancora più brutale. I detenuti, infatti, avevano divelto anche le inferriate dei finestroni ed erano riusciti a salire sui tetti della struttura.

Durante i tumulti era rimasta contusa anche la direttrice della struttura, Rita Romano che, assieme al comandante Gianluigi Lancellotta, aveva cercato di far rientrare la rivolta. Come tutta risposta i detenuti avevano imbracciato gli idranti “sparando” acqua su chi invocava la calma. Solo dopo diverse ore di trattative i detenuti avevano deciso di sotterrare l’ascia di guerra e di tornare autonomamente nelle proprie celle. (g.d.s.)