IL COMMENTO

Ricerca sociale, giornalismo e libertà: troppi ostacoli

Cosa unisce il sequestro del telefono di una cronista e le condanne dei docenti

Il sequestro del cellulare della giornalista de “la Città” Rosaria Federico, da parte della Procura della Repubblica, è l’ultimo evento, in ordine cronologico, di lesione delle libertà civili e politiche in Italia. Alla domanda «le libertà politiche, come quelle di informare e fare ricerca, sono in pericolo In Italia?», la risposta è sì, anche se questo non avviene in maniera generalizzata né con la sospensione dello stato di diritto.

Ciò che sta avvenendo è la moltiplicazione di situazioni in cui magistrati e membri della polizia ritengono di porre limiti alle libertà di azione, manifestazione ed espressione del pensiero, così come è accaduto, ad esempio, all’antropologa Roberta Chiroli, condannata a due mesi di reclusione per concorso morale in una manifestazione No Tav mentre svolgeva la ricerca per la tesi di laurea all’Università di Venezia, e considerata responsabile in quanto, si legge nella sentenza, le è stata riconosciuta la «la volontà di aderire in via preventiva alla commissione dei reati».

Qualcosa di simile è successo anche a Enzo Vinicio Alliegro, professore di antropologia dell’Università Federico II, che ha ricevuto un avviso di garanzia perché presente, nell’ambito del suo lavoro di ricerca sul campo, all’occupazione di una stazione ferroviaria durante un’iniziativa del movimento che si è opposto, nel 2015, alle eradicazioni degli ulivi affetti da xylella in Puglia. Questi provvedimenti sono in scia con altre iniziative specifiche, come quella che interessò nel 2015 Francesco Caruso, attivista dei movimenti no-global, divenuto oggetto di contestazione da parte di un sindacato di polizia, in quanto incaricato di un insegnamento in sociologia del territorio all’Università di Catanzaro e considerato – dal sindacato stesso, non da membri della comunità scientifica – inadeguato perché “sovversivo”.

E lo stesso è accaduto a due ricercatori, Pietro Saitta e Charlie Barnao, che, tra il 2012 e il 2013, sono divenuti oggetto di forti contestazioni da parte di organi di stampa e di associazioni di veterani della Folgore per un articolo sulle relazioni autoritarie riscontrate nelle caserme italiane. Non c’è differenza, nella sostanza e nel loro significato politico più complessivo, tra questo insieme di iniziative tese a ridurre la libertà di azione di ricercatrici e ricercatori sociali e quella della Procura di Salerno che ha fatto sequestrare il telefono di una giornalista, mettendo in discussione le modalità di esercizio del suo lavoro, che esiste in quanto risponde al diritto-dovere di informare, che si può esercitare solo in autonomia e se tale autonomia viene garantita concretamente. Evidentemente, gli atti di polizia che chiedono di limitare l’osservazione partecipante, metodo fondamentale per la ricerca antropologica ed etnografica, o obbligano a rivelare delle fonti riservate, tutela non negoziabile nel lavoro giornalistico e di inchiesta salvo nei casi particolarissimi previsti dalla legge, non vanno in questa direzione e non possono essere tollerati.

Così come in questa direzione non vanno le drastiche riduzioni alla ricerca, specialmente umana e sociale, che stanno attaccando l’università italiana da oltre dieci anni, né i processi di precarizzazione sempre più profonda che stanno caratterizzando il lavoro giornalistico. Bloccare questi processi è divenuta una priorità per consentire l’esercizio del diritto di cronaca così come lo svolgimento delle attività di ricerca e dell’inchiesta sociale.

Nessun atto ulteriore che vada contro questi diritti può essere ulteriormente tollerato e non bisogna raggiungere le vette degli stati dittatoriali, come quello egiziano in cui ha trovato la morte il ricercatore Giulio Regeni, perché questo limite venga posto.

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