"Stazione ferroviaria" Piazza Vittorio Veneto, foto commentta dall'artista Pietro Falivena

In omaggio con il quotidiano “la Città” un’altra fotografia storica, stavolta degli anni '50 L’area antistante la stazione con il monumento ai caduti senza la Vittoria alata

«Ero un caruso in calzoncini corti quando andavo alla stazione per chiedere notizie del mio papà, per sapere dell’ora del suo ritorno. Mi alzavo sulle punte delle ciabatte e davanti al marmo dello sportello l’addetto alle informazioni vedeva solo i miei capelli, ma mi aspettava, mi conosceva come un figlio».

Per Pietro Falivena, artista, piazza Ferrovia è stata per buona parte della sua vita una seconda casa. Il padre, Camillo, classe 1898, era capotreno a Salerno e faceva la spola tra la nostra città, Roma e la Calabria.

«Partiva alle 5.50 del mattino. Il ritorno non era mai puntuale. Così mi informavo. Il bigliettaio, senza nemmeno alzarsi dalla sedia, puntava il dito sull’orario dei treni e mi diceva: torna a casa....è presto papà non torna ancora, arriva alle...”. Indelebile rimane l’emozione della prima volta che ha potuto mettere piede sul treno: «Non in un vagone qualsiasi ma direttamente nella locomotrice. Era una littorina, un treno di lusso, di prima classe, l’equivalente di un nostro Freccia Rossa. Ebbi la possibilità di sedere accanto ad uno dei due macchinisti ed è stato bellissimo vedere la strada correre davanti a me, senza null’altro davanti che un vetro e le rotaie. E’ un effetto completamente diverso da ciò che si può ammirare da un finestrino qualsiasi».

Quel viaggio lo condusse fino alla Capitale: «Dove papà però non poteva seguirmi perché doveva lavorare, così mi diede 20 lire per comprarmi una gassosa e mi lasciò libero. Me ne andai a piedi fino al Colosseo».

Per il piccolo Pietro, le scene dei treni e della nostra piazza Vittorio Veneto, animata con cose e figure d’altri tempi, è un ricordo vivo: «Rivedere le vecchie Fiat parcheggiate appena fuori dallo scalo – spiega – è una grande emozione. A guardare bene ci sono ancora le carrozze con i cavalli. Non quelle sopravvissute fino agli anni Ottanta, ridotte ad un uso vagamente turistico, ma carrozze da trasporti, taxi a forza motrice animale».

Lì vicino c’era poi un barbiere, un salone pronto a servire sia i clienti di passaggio che quelli in transito. «Stava nel palazzo di fronte alla stazione – spiega Falivena che nel guardare la foto sembra sfogliare al contempo un invisibile album di ricordi – Coppola si chiamava. Ora è come se lo vedessi dopo tanti anni. Papà mi diceva sempre: nella vita, come lavoro, puoi fare quello che ti pare ma devi farlo bene. E se vuoi fare il barbiere devi essere il numero uno. Un anno fui rimandato a scuola e mi mandò a fare il garzone dal signor Coppola. Dopo una settimana trascorsa a passargli spazzola e forbici mi stufai e scappai. Tornai a casa e dissi a papà che volevo studiare: avevo imparato la lezione!».

Sempre nella piazza, continua, si apriva la bottega di un calzolaio: «Serviva tutte le classi sociali perché era il migliore. Le scarpe erano preziose, non si buttavano ma si riparavano anche più volte».

Tra i ferri del mestiere di un capotreno c’è sicuramente «l’orologio che ho conservato gelosamente. Preciso ancora nel suo meccanismo svizzero. Quando lo carico non si limita a segnare il presente: è come se scandisse tutto il tempo che è passato. Allora non avevo neppure dieci anni, oggi ne ho settantasei... E’ uno Zenith. L’ho regalato a mio figlio Marco».

Paolo Romano

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