Risorgimento nel salernitano<br />Prima puntata

Prima della tempesta La primavera del 1860

La struttura clandestina del Comitato d’ordine era animata in provincia da Meo, Marciano e Del Mercato

Nella primavera del 1860 il Regno delle Due Sicilie sembrava l’unico superstite tra gli antichi Stati italiani. Almeno apparentemente, non era stato scosso dalla Seconda guerra d’Indipendenza e dal mito dilagante dell’Italia di Vittorio Emanuele II o di quel Garibaldi che per giornali e rotocalchi era oramai una star mondiale. La provincia di Salerno era una parte importante di quel vecchio Regno, si chiamava Principato Citra ed era solo un po’ più grande di quella attuale. Però aveva una struttura amministrativa molto diversa da quella a cui siamo abituati oggi. In assenza di enti elettivi tutta la vita politica e sociale della societá borbonica ruotava su due livelli: le intendenze e i sindaci per l’amministrazione civile, le forze militari e la guardia urbana per le strutture di sicurezza. Era però il governo del Re a decidere nomine e degradazioni, promozioni e trasferimenti: in assenza di qualsiasi contropotere di tipo costituzionale tutti i processi del potere locale e provinciale erano centralizzati verticalmente (ed erano oggetto di tutte le recriminazioni possibili ed immaginabili, giuste o inventate, per soprusi, corruzione ed inefficienze).

• Il Principato Citra, oltre all’Intendenza di Salerno (che comprendeva anche la piana del Sele, l’agro nocerino e la costiera amalfitana) era diviso in tre sottintendenze (Vallo, Campagna e Sala) e 45 circondari con oltre 150 comuni (più o meno corrispondenti a quelli attuali). All’intendente Morelli, da poco in servizio a Salerno, si affiancava il comandante delle armi della provincia (nel ’60 era il generale Luigi Scotti Douglas) e i vertici della Gendarmeria (la polizia militare) e della magistratura (divisa nelle corti civili e penali). Erano i funzionari locali però la base del potere regio e delle sue istituzioni. I capi degli Urbani, i sindaci del Re, i sottintendenti dovevano inviare sistematicamente relazioni sullo spirito pubblico, segnalare il comportamento degli attendibili (i sospettati politici) e comprendere i movimenti che attraversavano una societá sempre in fermento e comunque piena di tensioni e paure. Era da sessant’anni infatti che la provincia di Salerno era scossa (come e più di gran parte del Mezzogiorno) da continue cospirazioni, rivolte e rivoluzioni. Per la polizia borbonica il Cilento era il cuore di tutto questo, la tanto citata terra dei tristi ma, in realtá, non c’era comune che non aveva i suoi condannati politici o il ricordo di una qualche insurrezione. Dopo il decennio francese la rivoluzione liberale del ’20 aveva avuto nel salernitano il suo epicentro e qui si erano contate più di cento vendite (le sezioni comunali) della carboneria. Le rivolte erano continuate nel ’23, nel ’25, la più famosa fu quella cilentana del ’28, finita con decine di condanne a morte e un lungo strascico di guerriglia locale. I capi del ’20 e quelli del ’28 erano finiti ammazzati o in carcere. Eppure anche negli anni trenta e quaranta si erano susseguite cospirazioni e congiure esplose nei moti del ’48. Ancora una volta l’epilogo fu drammatico per i liberali e per i democratici. Nel solo Cilento ci furono più di 2000 indagati per fatti politici. A centinaia i salernitani finirono nelle prigioni o in esilio e tra questi i principali esponenti della politica locale come D’Avossa e Mazziotti, Conforti e Bellelli. Insomma il governo borbonico non poteva stare tranquillo, anche se non mancavano di certo sostenitori e partigiani del Re e della dinastia che Ferdinando II guidava con pugno di ferro.

• Lo si era visto nel 1857, quando la colonna di Pisacane era stata annientata dall’azione combinata delle forze paramilitari civili, dei regolari e dall’efficienza dell’Intendente Ajossa e dell’intelligence borbonica che avevano sgominato la rete cospirativa salernitana prima ancora che giungessero i protagonisti della sfortunata impresa di Sapri. Nella primavera del ’60, leggendo le relazioni dei funzionari del nuovo re Francesco II, conservate nelle splendide raccolte dell’Archivio di Stato di Salerno, sembrava infatti che la provincia di Salerno non fosse toccata dal terremoto che stava rivoltando l’Italia. Eppure il Re non riusciva a formare un governo, lo stato era del tutto isolato rispetto all’opinione pubblica internazionale che, molto spesso lo considerava un ospite indesiderato della scena pubblica europea. Non erano solo Cavour e Garibaldi i temuti nemici del Re e della Dinastia. Dopo l’inizio del ’60 in tutta Italia si guardava alle Due Sicilie e nessuno credeva che il Regno poteva restare immobile come aveva voluto il defunto padre. La storia andava in un’altra direzione, il nazionalismo e il liberalismo erano i suoi motori e il Borbone non avrebbe potuto resistere in eterno. Negli atti del governo Francesco II si vede il tentativo di fare qualche opera. Di liberalizzare qualche prodotto, insomma qualche azione per accattivare una opinione pubblica fredda e dubbiosa. Si sapeva che qualcosa sarebbe successo e con l’arrivo di Garibaldi in Sicilia esplose il vaso di Pandora. Il Regno non era un mare calmo, eserciti di cospiratori e rivoluzionari tramavano contro la dinastia, o perché ancora legati al mito della vecchia costituzione oppure (ed erano la maggioranza) convinti di arrivare finalmente alla costruzione dell’Italia unita. A Salerno, tra le righe formali ed ossequiose di capo urbani e funzionari che scrivevano dai comuni, cominciava ad emergere una realtá diversa. Il giudice regio di Pagani scriveva che gli attuali avvenimenti di Sicilia generano negli animi timori o folli speranze, secondo che si appartengono al partito dell’ordine o quello opposto. La provincia era inondata di voci di ipotetici e futuri sbarchi.

• Qualche funzionario borbonico più intelligente e meno servile, come il temibile sottointendente di Sala Calvosa diceva che i nemici dello stato erano i soli ad occuparsi della materia politica interessati a spacciar nuove inquietudini, insomma erano gli unici ad occuparsi di politica. Calvosa, infatti, non si sbagliava. Nel 1860 in provincia di Salerno era concentrato il 24% dei sospettati politici del continente, da oltre un anno era stata riaperta la sede clandestina del Comitato d’ordine (così si chiamava il centro cospirativo liberale del regno) animata da Marciano, Del Mercato, di Pace e Meo. Anche se divisi tra simpatizzanti e sostenitori della politica di Cavour (La Francesca, Bottiglieri, Tajani, Luciani) e radicali garibaldini (Magnoni, Carrano, De Pasquale, Curzio) erano tutti decisi a demolire il vecchio stato. L’organizzazione democratica era mobilitata dal ritorno del fanatico e deciso mazziano Giovanni Matina, giunto in clandestinitá da Genova. E poi, anche se non potevano saperlo i funzionari del Re, 9 salernitani (Santelmo, Serino, Padula, i due Del Mastro, Vinciprova, Patella, Serino e Pessolani), reduci delle passate battaglie, erano sbarcati in Sicilia tra i Mille e partecipano alla campagna insulare di Garibaldi. Tutto questo avveniva mentre si giungeva all’ora decisiva per la Dinastia egli uomini i Francesco II guardavano confusi e incerti al destino del loro antico stato.
* Docente di Storia contemporanea facoltá di Lettere e Filosofia dell’Universitá di Salerno
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