Morì nell’ospedale psichiatrico «Dopo due anni solo silenzi» 

Il legale della famiglia scrive ai procuratori: «È scaduto il termine delle indagini e ancora nulla» Lo sfogo della sorella di Massimiliano Malzone: «Non ci fu mai permesso un incontro con lui»

MONTECORICE. «A due anni dalla morte di Massimiliano Malzone, nessuna notizia sulle indagini. Con lui morto anche lo stato di diritto». Lo sfogo è quello di Michele Capano, avvocato della famiglia del 39enne deceduto nel maggio 2015 nell’ospedale psichiatrico di Sant’Arsenio, dopo un “tso” (trattamento sanitario obbligatorio). «Il 28 maggio 2015 - ricorda il legale, tesoriere dei Radicali italiani - Massimiliano venne svegliato e fermato nella sua abitazione di Montecorice da agenti della polizia municipale senza un’autorizzazione giudiziaria e senza che ci fosse alcuna situazione di emergenza. All’arrivo degli operatori sanitari venne poi condotto all’ospedale di Sant’Arsenio per essere sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio. Qui morì l’8 giugno in circostanze ancora da chiarire».
A due anni esatti dai fatti, trascorsi senza che le indagini abbiano dato esiti, Capano, promotore della campagna “La libertà è terapeutica per una riforma del Tso”, ha scritto una lettera al procuratore di Lagonegro, al Pg della Corte d’appello di Potenza e a quello di Cassazione e per conoscenza al ministro della Giustizia. Nella missiva, Capano ripercorre il calvario di Malzone: «la restrizione immotivata della libertà personale a opera dei vigili urbani, arrivati a sbarrare con l’automobile l’uscita dell’abitazione, stigmatizzata anche dagli operatori sanitari poiché aveva messo in agitazione l’uomo, che fino a poco prima dormiva, “ritardando e complicando, anziché agevolarla, l’azione medica”. E poi, la negazione in ospedale di ogni contatto con la famiglia, che ha ricevuto rassicurazioni sulle condizioni di Massimiliano fino a poche ore prima di apprendere del suo decesso».
A dare conto di tale situazione è la sorella di Massimiliano, Adele: «non ci hanno mai lasciato vedere mio fratello, la nostra vista, secondo i medici, l’avrebbe alterato». E aggiunge: «fu un medico a dirci che a mio fratello era stata somministrata una cura da cavallo, normalmente somministrata in tre mesi». Quindi l’unico contatto con il 39enne, poco prima di morire: «mi chiamò utilizzando il telefono di una paziente del reparto, mi chiese il numero dell’avvocato di famiglia, col quale avrebbe voluto parlare». Ma non ci riuscì.
Ora la famiglia vuole comprendere se la «terapia può aver avuto un collegamento concausale con l’arresto cardiaco». Ma «non è per tutto questo che vi chiedo di esercitare le vostre responsabilità – sottolinea Capano alle autorità giudiziarie - ma solo perché gli articoli del Codice di procedura penale dettano il termine invalicabile di due anni per il compimento delle indagini. E oggi – conclude - questo termine è spirato, come Massimiliano».
Andrea Passaro
©RIPRODUZIONE RISERVATA.