IL COMMENTO

Le urne locali non risuscitano Silvio. Il gap dei candidati non scelti in libertà

La radiografia del voto salernitano propone le classiche evidenze di sempre, proprio come ai tempi dello Stato sovrano, dell’industrializzazione espansiva, delle classi, del capitale

La radiografia del voto salernitano propone le classiche evidenze di sempre, proprio come ai tempi dello Stato sovrano, dell’industrializzazione espansiva, delle classi, del capitale.: meno elettori (e questo potrebbe essere un dato politico), più risse e regolamenti di conti all’interno della sinistra (e questa è una tangibilità anche emozionale), presenza ormai essenzialmente simbolica della destra, polarizzazione del consenso intorno a immagini forti, passaggi del testimone in genere ben riusciti, recenti investiture mal programmate (San Severino), M5S claudicante come nel resto d’Italia, pilotaggi del consenso “locale” dall’esterno.

Nessuno scossone tale da indicare una Svolta con la “s” maiuscola, da politica 2.0 o 4.0, zero tracce di un reale, omogeneo conflitto politico aperto nell’era dei populismi e della delusione istituzionale.
Nel voto di domenica c’è tuttavia un elemento che lega il piano locale allo scenario nazionale: il Movimento 5 Stelle sfigura a Salerno come a Genova, a Parma e ovunque: è una sorta di flop territoriale geograficamente omogeneo, che origina dalla incapacità dei grillini di occuparsi dei temi concreti, che poi sono i drammi della nostra gente, e probabilmente anche da una qual certa confusione determinata dalle ingerenze di Grillo nella scelta dei candidati (vedi Genova). Gli elettori, da parte loro, sul piano locale, non riescono ad operare un riconoscimento di questa forza politica giovane (ma, in parte, già a rischio di logoramento), pur essendo ormai forte ovunque la tentazione di sovvertire questo mondo nel quale non siamo mai stati così male. Le prove offerte a Roma, e recentemente anche a Torino, nonostante qualche esagerazione strumentale dei detrattori della Pendino, forniscono un’idea di governi pentastellati carenti, provvisori e, spesso, equivocamente implicati con il passato. Un’impressione che non favorisce la rivalutazione del movimento.
Salerno, però, non conferma la resurrezione di Berlusconi, miracolo che sarebbe riuscito difficile anche a Gesù se richiamato da Marta e Maria per chiedergli un Lazzaro bis, ma che si è verificato domenica, per volontà popolare, in altre aree elettorali d’Italia, determinando il superamento dell’assetto tripolare al quale un po' ci si era abituati. Siamo tornati, così, alla contesa destra-sinistra, come ai tempi del bipolarismo indiscusso e del maggioritario alla moda. Ma a Salerno non c’è traccia di questa prospettiva tendenziale, nonostante alcune dense testimonianze di impegno e di coraggio come quella del medico salernitano Antonio Roscia che, assumendosi la responsabilità della sconfitta, si è dimesso da commissario di Forza Italia a Nocera Inferiore, comune di 46.043 abitanti, il cui copione appariva dal primo momento già scritto. Manlio Torquato, sindaco uscente e ora riconfermato, è un politico amato: ha trasformato la sua città recuperandola ad una dignità da molto tempo perduta. I cittadini sono vigili, in questi casi.
Malgrado otto candidati, circostanza che lasciava supporre la quasi impossibilità di vittoria al primo turno, Torquato ha centrato il bersaglio con quasi il 65 per cento dei consensi, tremila voti in più rispetto alla passata tornata, nonostante il dieci per cento dei nocerini abbia disertato le urne. È un caso di scuola, questo, di come una forte personalità civica, nella coerenza di un pensiero-azione in sintonia con le reali esigenze del territorio, possa riuscire, come collante efficacissimo, nel compito arduo di legittimare le forze sostenitrici della propria candidatura. Pur avendo avuto un forte concorso politico, la proposta di Torquato è nata, infatti, nel cuore della comunità, tra la gente, iscrivendosi come valore indiscutibile nel processo di metamorfosi del nostro tempo inquieto.
A Mercato S. Severino è avvenuto l’opposto, perché il mancato ascolto delle istanze di base ha indotto il Pd a cercare all’esterno la chiave della candidatura. È rimasto così a casa il concorrente naturale, Carmine Ansalone, dopo dieci anni di opposizione tenace alle giunte Romano e, per cooptazione, è stato designato Vincenzo Bennet, un giovane professionista nato in paese, che non poteva però vantare, sul piano locale, un percorso politico-istituzionale di evidenza e di spessore come quello dell’escluso. È scattata una gigantesca operazione di sostegno alla sua candidatura, così maturata e imposta “dall’alto”, ma l’esito è stato deludente: le liste hanno ottenuto molti più voti e il passaggio al primo turno non si è verificato. Se al ballottaggio lo sfidante del candidato Pd dovesse vincere, rischierebbe di trovarsi in Consiglio gran parte della squadra dell’avversario, che è stata peraltro cooptata dalla destra, pescando nella folta schiera dei collaboratori dell’ex sindaco Giovanni Romano. Una commedia all’italiana, i cui esiti sarebbero imprevedibili sul piano della governabilità. Ma è appunto quanto rischia di accadere a causa del mancato rispetto delle volontà locali e dell’impossibilità delle comunità politiche periferiche di autodeterminarsi, con tutta la crisi di fiducia e lo sgretolamento delle identità civiche che ne conseguono.
Il mondo è cambiato, ma talvolta non ne abbiamo coscienza e la politica, in particolare, non riesce a convincersi che gli spazi di libertà all’interno di nuclei locali ostili alle “tutele” non possono essere messi in discussione. Una buona occasione, forse, per riflettere sul principio dell’intangibilità della democrazia di base.
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