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Le mie notti al Ruggi senza il tempo di un caffè

Luisa Vitiello lavora al pronto soccorso dal 2009: «Questa è la mia casa»

SALERNO. Al pronto soccorso del Ruggi è arrivata nel 2009, fresca di laurea e di specializzazione in medicina interna. Da allora è diventato la sua casa: «Nonostante abbia avuto diverse occasioni, sono stata sempre convinta di dover lavorare per il mio territorio. Molti aspirano ad essere trasferiti, io invece voglio restare qui e continuare ad occuparmi dell’urgenza». Luisa Vitiello, 41 anni, ha le idee chiarissime, coraggio da vendere e, soprattutto, non si lascia intimidire dalle difficoltà. «Di rinunce ne ho fatte tantissime, ma è il prezzo da pagare per una missione di vita».

Medico del pronto soccorso: la sua non è stata una scelta comoda.

No (ride), ma era quello che volevo, perché solo l’urgenza di regala la pienezza di questo mestiere. Mi piace mettermi in gioco, essere parte di una sfida continua, stare a contatto con le persone, aiutare pazienti acuti a uscire fuori dalla crisi. Quando ci riesci, vuol dire aver centrato l’obiettivo. Certo, è dura, ma vado avanti.

Quante notti trascorre in ospedale?

In media dalle quattro alle cinque al mese, più le reperibilità. Il turno è dalle 20 alle 8 e si compone di due internisti ed un chirurgo.

Sono movimentate le serate al Ruggi?

Moltissimo. Diciamo che trattiamo più o meno una quarantina di casi. Si va dai pazienti critici a quelle che sono le emergenze del fine settimana, come giovani ubriachi o vittime di incidenti. La mole del lavoro è enorme. Non c’è il tempo neppure di prendere un caffè, si opera a ciclo continuo.

Le è capitato di trascorrere anche la notte di giorni festivi in ospedale?

Certo, sia il Natale che il primo gennaio. E non c’è mai stata la possibilità di fare un brindisi, perché i ritmi sono ancora più concitati che nei giorni feriali.

Una corsa continua...

Direi di sì. Poi ci sono i festivi personali. Non sa quante volte ho fatto una corsa al cardiopalma per riuscire ad arrivare in tempo a casa per spegnere le candeline per il mio compleanno. Quella che le supera tutte è quando scappai da mia sorella che stava per partorire.

Insomma, tante rinunce.

Tantissime, anche perché io sono molto esigente e pretendo da me stessa di dare sempre il massimo. La cosa che alle volte mi pesa è che nel poco tempo libero che ho a disposizione non riesco a recuperare energie, mentre invece vorrei poter fare di più per me e per le persone che mi circondano.

Questo le è stato di ostacolo nella costruzione dei suoi rapporti affettivi?

Io dico sempre che volere è potere, dunque qualsiasi lavoro è conciliabile con la vita affettiva se c’è il desiderio di farlo. Poi è evidente che capitano momenti in cui sai di non poter dare di più, anche se lo vorresti, a chi ti sta a fianco, perché anche organizzare un pranzo in famiglia o prendere parte alla festa di un’amica, alle volte diventa un’impresa titanica. Quando lavori di notte è evidentemente tutto più complicato, devi calibrare i ritmi, calcolare gli orari anche del giorno precedente e di quello successivo, mettendo in conto la stanchezza e la necessità di riposare quel minimo che ti serve per andare avanti. Ma non credo sia una peculiarità di questo mestiere. Oggi i ritmi sono caotici un pò per tutti, ci sono tante categorie professionali che trascorrono la maggior parte del loro tempo sul posto di lavoro e non con i propri cari, e tanti che lavorano anche di notte, in maniera totalizzante.

Lavorare di notte comporta anche dei rischi maggiori. Le è mai capitato qualche episodio sgradevole?

I momenti negativi tendo a rimuoverli, viceversa ho l’abitudine di conservare quelli positivi, perché guardare negli occhi un paziente che ti ringrazia o che ti fa arrivare un segnale di riconoscimento è un regalo che non ha prezzo, soprattutto per noi medici, che spesso siamo ingiustamente denigrati. Di notte se ne vedono di tutti i colori, c’è maggiore probabilità di avere a che fare con pazienti agitati per via di problemi psichiatrici o perché hanno assunto mix di alcol e droghe, ma al Ruggi riusciamo a gestire bene anche questa tipologia di emergenza, perchè la riorganizzazione del pronto soccorso ha migliorato il nostro modo di lavorare. Il paziente, rispetto al passato, non ci piomba addosso, molti vengono accompagnati dal 118 e dunque c’è un filtro. Senza considerare che abbiamo la presenza di uno psichiatra sull’arco delle 24 ore. In generale non ho mai avuto grandi problemi e credo che questo dipenda in parte dal mio carattere: credo molto nel dialogo, il lato psicologico fa parte del nostro mestiere e così mi sforzo sempre di immedesimarmi nella persona che ho di fronte, immaginando le sue paure e i suoi bisogni.

Quando ha deciso di voler fare il medico?

Fin da piccola. Ho fatto studi classici e credo che l’umanizzazione sia una componente molto forte di questa professione. Poi ho sempre nutrito dentro di me il desiderio di essere di aiuto per gli altri, l’ansia di voler tenere sotto controllo le situazioni, la gestione dell’emergenza insomma. E non a caso ho scelto di specializzarmi in medicina interna: oggi c’è una corsa esasperata verso l’ultrasettorializzazione, ma ritengo fondamentale avere la capacità di uno sguardo globale. Anche sotto questo punto di vista il pronto soccorso è una grande palestra. In particolare quello del Ruggi che è punto di riferimento per l’intera provincia. Ci diamo l’anima, mi creda. E di questo i pazienti se ne accorgono, soprattutto quando riusciamo a trasmettere loro la nostra umanità, oltre che il bagaglio professionale.

Negli anni è cambiata la tipologia di utenti?

Direi di sì. L’acuirsi delle problematiche sociali ha avuto un peso non indifferente. Ci arrivano tantissime persone che non hanno la possibilità di curarsi, moltissimi stranieri e poi quelli che io chiamo i pazienti fragili, ossia i grandi anziani che sempre più spesso vengono abbandonati. Il lavoro non manca mai.

Non crede che il pronto soccorso sia strozzato da diverse prestazioni improprie per via di una carenza di assistenza imputabile alla rete territoriale?

Ci sono malati che potrebbero essere filtrati meglio, ma è anche vero che il Ruggi ha in sè tutte le specializzazioni di cui un paziente potrebbe avere bisogno

Lascerebbe il Ruggi?

No. Mi piacerebbe fare un’esperienza di lavoro all’estero, ma casa mia è questa.

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(5- Continua. Le interviste al tassista Gaetano Ricco, al pierre Daniele Avallone, al soccorritore Alessio De Silvio e al dj Peppe Cancro sono uscite il 27 febbraio, il 6, il 13 e il 20 marzo)