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La violenza corre sui social

Inneggisno al Bronx e ai clan: viaggio nei "post" dei ragazzini salernitani

SALERNO. Visi dai tratti già ruvidi che contrastano con la giovane età esibita dai loro profili Facebook, fotografie che inneggiano alle armi e immagini di sangue condivise con gli amici e sfoggiate con soddisfazione come trofei. Non è il resoconto di una puntata della fortunata serie tv “Gomorra” ispirata al libro cult di Roberto Saviano, ma quello che emerge facendo un giro sui reali profili social di molti ragazzini salernitani. In particolare di quelli che abitano le popolose frazioni collinari della città, cresciute a dismisura dopo il terremoto del 1980 e prive in molti casi di strutture di aggregazione sociale. Il deserto riempito molto spesso solo dalle iniziative della parrocchia o di pochi volenterosi.

Il web – attraverso lo strumento dei social – è diventato da tempo il contenitore in cui immettere messaggi per veicolare la giusta immagine di sé, un posto in cui ci si impegna a farsi riconoscere sulla base degli elementi che di volta in volta si condividono e con cui si trasmettono anche i propri stati d’animo. “Mi sarei preso una pallottola per loro e furono loro i primi a spararmi” si legge sul profilo Facebook di Luca che non avrà più di 15 anni. Si tratterà pure di iperboliche esternazioni ma di fatto le metafore hanno a che fare quasi sempre con la guerra criminale, con il mondo dei clan a cui molti di questi ragazzi sembrano aspirare i loro post e le loro esternazioni. Non per forza camorristi, dunque; ma di sicuro abbondantemente addentrati nelle logiche dei codici comportamentali e comunicativi che la camorra e la criminalità organizzata in genere col tempo è riuscita ad imporre anche sul web.

I fratelli del Bronx. Si chiamano tra di loro “fratelli”, inseriscono come luogo di provenienza il “bronx” ed è quasi l’evocazione di un mondo parallelo governato da un regime che non lascia scampo e che riesce, nella sua logica, a mantenere l’ordine e la giustizia sociale. Questo viene da pensare quando Francesco, accompagnando il concetto con pistola e sigaretta, scrive “A democrazia non funziona, perché i cani si mangiano tra di loro si nun ce sta ’o bastone”. Sempre sul profilo di Luca si legge: “ti ucciderò, seriamente, corri” e quando Martina, un’amica, lo interroga su chi voglia uccidere, lui risponde “quello che mi trovo davanti”. Poi c’è Peter che per comunicare a tutti il sentimento di rabbia che lo anima, scrive “la vendetta è il primo comandamento”. Ancora, Mattia, che dalle foto sembra davvero un ragazzino, annuncia a tutti di aver “scelto il male perché il bene era banale”.

Video, foto e trasgressione. Antonio, anche lui poco più che 16enne, posta un video in cui sul seno di una donna si tagliano dosi di cocaina da sniffare, con tanto di condanna verso chi non è in grado di coglierne il piacere. Insomma, un vortice impetuoso di inni volti ad infrangere e oltrepassare le regole. È la comunicazione della trasgressione, in odore di malaffare che riscuote un gran successo sui social. I like e le condivisioni a questo tipo di contenuti non si contano e gli autori continuano così ad aumentare la loro reputazione e il loro ruolo da leader sul web. Alle immagini dure ed esplicite si accompagnano emoticon ricorrenti: le bombe, le siringhe con la goccia di sangue, il pugno, il coltello, la pistola. Sono tutti espedienti per rafforzare ulteriormente i concetti di rabbia perché il linguaggio urlato diventa già normalità. Tanto normale da aver bisogno di essere continuamente rimpolpato con altri rafforzativi, sempre più espliciti, sempre più cruenti.

Prepotenza e rispetto. «C’è una specie di controcultura del comportamento del modello vincente. Molti di questi ragazzi - commenta la dottoressa Maria Iagulli, psicoterapeuta dell’orientamento sistemico razionale - provengono da contesti in cui la prepotenza è lo strumento per ottenere rispetto. Quando vengono etichettati come ragazzi problematici, possono capire che il loro modello è ingannevole ma risulta un’impresa difficilissima educarli a nuovi stili comportamentali, totalmente diversi da quelli che hanno incamerato». Il fenomeno interessa maggiormente quei giovani considerati a rischio, provenienti da zone periferiche della città, ma non esclude che anche i ragazzi cresciuti in ambienti sani possano essere attratti da modi di fare camorristici. «Sono comportamenti dilaganti - continua ancora l’esperta - in senso trasversale. Bisognerebbe far recuperare la funzione genitoriale. A volte può essere anche un modo per urlare il proprio disagio in contesti non per forza privi di strumenti ma dove si è persa la funzione normativa dei genitori. In questo si può e si deve fare di più, ad esempio aumentando i filtri tra i giovani e la famiglia. Se vogliamo arginare il problema, è necessario intensificare in tal senso figure mediatrici appartenenti al mondo della scuola, alle associazioni e alle istituzioni affinché ci sia un lavoro congiunto e molto più capillare».

 

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