MANI PULITE

«La tangentopoli salernitana svelata con un software»

Il giudice Di Nicola racconta i retroscena dell’inchiesta Una “banca dati” fatta in casa per scoprire il malaffare

SALERNO. Tangentopoli non esiste; o meglio, esistono tante tangentopoli, episodi di corruzione o di malaffare che emergono ciclicamente dal fiume carsico della Pubblica amministrazione, che si intrecciano con interessi privati e collusioni, che si nutrono dei flussi di denaro pubblico succhiando la linfa vitale del Paese. Un reato invisibile dice oggi il giudice della Terza sezione penale della Corte di Cassazione Vito Di Nicola, protagonista 25 anni fa, da pm, di quella che fu chiamata la tangentopoli salernitana. Inchieste sui reati nella pubblica amministrazione (dai falsi alle turbative d’asta, passando per la corruzione e la concussione) che erano iniziate molto prima che il “mariuolo” Mario Chiesa fosse pizzicato ad intascare una mazzetta dagli agenti inviati al Pio Albergo Trivulzio dal pm milanese Antonio Di Pietro. Una storia che inizia nel ’91 quando Di Nicola, dopo una breve parentesi da giudice a Potenza, torna a Salerno da pm. «Avevo già lavorato in procura dal 1985 al 1989, per me fu un ritorno alle origini».

E così inizia la stagione delle inchieste sui reati legati alla pubblica amministrazione...

In realtà già avevamo avviato, prima della mia parentesi a Potenza, delle indagini in questo specifico settore. Nei nostri uffici arrivavano esposti anonimi ma anche denunce per presunte irregolarità nella Sanità, negli appalti pubblici gestiti da vari comuni, dalla Provincia, dalla Regione, dai Consorzi. Non avevamo un vero e proprio pool, non c’erano come avviene oggi le assegnazioni tabellari: il procuratore affidava a propria discrezione i vari fascicoli.

Fascicoli e dati da mettere insieme...

Sì, recuperai il lavoro già fatto tra l’ ’85 e l’ ’89 incrociandolo con altri dati più recenti sugli appalti pubblici e ci accorgemmo che c’erano dei problemi legati alla scelta dei contraenti nelle gare, agli affidamenti della progettazione e alla nomina dei progettisti. Circostanze che potevano avere una rilevanza investigativa. A spese nostre ci dotammo di pc e, ricorrendo ad esperti di ingegneria informatica, fu elaborato un programma software capace di incrociare tutte le informazioni in nostro possesso. Con questo strumento iniziammo ad esplorare le varie vicende investigative arrivate al nostro Ufficio. Attingevamo informazioni non solo dai nostri fascicoli ma anche dagli articoli di giornale quando il Procuratore riteneva di aprire nuovi fascicoli: dall’affidamento di un appalto ad una ditta, una denuncia di malasanità... Insomma, tutto quello che poteva essere utile al nostro lavoro. Pensi che l’inchiesta sulla Fondovalle Calore, successivamente curata da me e dal collega Luigi D’Alessio sia nella fase preliminare che in quella dibattimentale fino alla sentenza di primo grado, prese spunto dalla denuncia di un’associazione ambientalista che vedeva in quell’opera pubblica una minaccia per l’ecosistema della zona ed in particolare per la sopravvivenza della lontra...

Formaste, in sostanza, una vera e propria banca dati da cui attingere informazioni...

Sì, esatto, tanto che alcune nostre inchieste sulla Pubblica amministrazione sono nate e si sono sviluppate ben prima dell’inizio della stagione di Mani pulite...

Queste informazioni dovevano però essere verificate sul campo, attraverso gli strumenti investigativi...

Certo, la tecnica usata fu quella tradizionale: acquisizione degli atti presso enti pubblici, perquisizioni, anche intercettazioni quando era consentito. E poi il ricorso a consulenti esperti nelle varie materie.

E poi gli arresti, le custodie cautelari: secondo lei c’è stato un abuso di questo strumento nelle indagini di Mani pulite, come da più parti si afferma?

Può essere che ci siano state delle forzature nell’uso dello strumento della custodia cautelare nel corso delle indagini di quel periodo sulla Pubblica amministrazione. Ma bisogna esaminare caso per caso, non generalizzare. Mi permetto solo di sottolineare che la necessità di acquisire gli elementi di prova non ha niente a che vedere con la libertà personale. Per intenderci: “se parli esci altrimenti resti in carcere”. Mi è stato insegnato che “il mezzo è il fine” ed un fine giusto si persegue soltanto con un mezzo giusto. Ricordo ancora un articolo di Luigi Ferrajoli, uscito proprio nel 1993, nel quale il noto giurista sottolineava come una forzatura sul tema della libertà personale potesse avere una diretta conseguenza in negativo sull’esercizio della giurisdizione, sul lavoro stesso dell’organo inquirente e soprattutto sulla sua indipendenza dal potere esecutivo.

Dunque un problema sulla carcerazione preventiva c’è stato...

Non è escluso, ma va comunque esaminato in quel particolare contesto: sicuramente in alcuni casi c’è stato, ma nel contempo la magistratura aveva anche a che fare con un sistema di potere che mirava all’arricchimento indebito e selvaggio. Un vero e proprio intreccio tra Pubblica amministrazione e interessi privati. E poi le regole del processo, profondamente cambiate nel corso degli anni. Pensi all’utilizzabilità ai fini della prova degli interrogatori resi nella fase preliminare nel dibattimento. Le regole imposte dal nuovo Codice nel 1989, mutarono improvvisamente nel 1992, dopo la strage di Capaci. La dichiarazione poteva comunque essere acquisita al fascicolo del dibattimento anche se il teste negava, al giudice toccava il compito di valutarne l’attendibilità dell’una e dell’altra. Nel 2000, con le regole del “giusto processo”, nuovo cambio nel senso dell’inutilizzabilità come prova delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari, quando ormai quei processi erano già in corso...

C’è chi afferma che l’esplosione delle indagini di “Mani Pulite” a Milano abbia provocato nelle varie procure un effetto emulativo, che cioè i pm di tutta Italia, all’improvviso, si siano accorti che nel nostro Paese esistevano la corruzione e la concussione...

Tra le indagini di Milano e quelle fatte a Salerno c’era comunque una differenza. Certo, anche noi abbiamo assistito in quel periodo al fenomeno degli imprenditori che, accompagnati dai loro legali, bussavano alla nostra porta per essere sentiti. Di solito accadeva quando sui giornali veniva fuori la notizia dell’apertura di un fascicolo relativo ad indagine su un appalto o un’acquisizione di atti presso un Ente pubblico. A differenza di Milano, però, noi avevamo già raccolto grazie al nostro software una serie di informazioni tali da avere già un quadro della vicenda. Quindi non abbiamo fatto un grande uso delle prove dichiarative, comunque necessarie ovviamente.

Nel ’94 lei lascia la procura per approdare alla Distrettuale antimafia...

E lì ho avuto a che fare con un altro aspetto ancora più devastante, l’infiltrazione del crimine organizzato negli appalti pubblici e le relative interferenze con la Pubblica amministrazione. Del resto il boss della Nuova famiglia, Carmine Alfieri, aveva imposto ai vari capizona di lasciar perdere il traffico di droga e di concentrare gli sforzi criminali proprio nel settore delle tangenti negli appalti pubblici, imponendo i subappalti e consentendo agli imprenditori di creare fondi neri con la tecnica delle sovraffatturazioni. Anzi proprio da Milano ci arrivarono notizie di questo fenomeno: le grandi imprese del Nord costrette a fare i conti coi clan locali. Una circostanza poi confermata dai vari collaboratori di giustizia, tra cui lo stesso Alfieri.

Era finita l’era di tangentopoli e si apriva una nuova stagione investigativa?

Lei crede? Secondo me le cose stanno diversamente. Lei crede che con la fine della stagione di Mani pulite sia finito anche il fenomeno delle tangenti? O il fenomeno corruttivo o concussivo resta purtroppo sottotraccia? La realtà è che tangentopoli non è mai finita. E continuerà ad esistere fino a quando non si comprenderà che il potere pubblico è un servizio reso alla comunità e non un affrancamento dalle regole della legalità. L’imprenditore deve denunciare chi gli chiede una tangente, il cittadino deve ribellarsi alla logica della raccomandazione, il professionista deve rispettare le regole deontologiche. Ma soprattutto la scuola, deputata alla creazione di una nuova classe dirigente: bisogna formare un cittadino con la cultura della legalità, capace di affrancarsi dalle scorie del servilismo e della schiavitù di chi pensa che il consenso ed il successo possa essere basato solo sul favoritismo e sul collateralismo. Solo allora potremo dire che tangentopoli è finita...

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