IL COMMENTO

La piaga del caporalato e del lavoro senza diritti

Un ragazzo di 28 anni, del Mali, è tra la vita e la morte nell’ospedale di Eboli, dopo essere stato investito da un’auto sulla bicicletta che lo portava a casa dal lavoro, quasi certamente svolto a...

Un ragazzo di 28 anni, del Mali, è tra la vita e la morte nell’ospedale di Eboli, dopo essere stato investito da un’auto sulla bicicletta che lo portava a casa dal lavoro, quasi certamente svolto a nero, in uno dei campi della Piana del Sele.

Cosa si può dire che non sia stato già detto, considerando che le denunce sulle condizioni di lavoro e sicurezza in una parte dell’agricoltura della provincia di Salerno si moltiplicano da almeno quindici anni?

[[(standard.Article) Se questo è un uomo Gli schiavi tra noi]]

Fiom-Cgil, Medici per i diritti umani, Medici senza frontiere, il lavoro di ricerca nell’università di Salerno e di istituti stranieri come il Consejo superior de investigaciones científicas di Madrid, inchieste giornalistiche, attivisti e gruppi di volontariato e di impegno civile stanno dicendo, a ripetizione, che così non si può andare avanti. E lo stanno dicendo con dati, fatti e analisi, oltre che con proposte. Ma niente, è come se il sistema imprenditoriale e istituzionale fosse impermeabile. Parole, numeri, statistiche, storie di vita, pubblicazioni, proteste, denunce: tutto gli rimbalza addosso, come se nulla accadesse, come se tutto fosse regolare e andasse bene.

L’agricoltura della Piana del Sele è ricca, produttiva tutti i giorni dell’anno, tecnologicamente avanzata, con una grande capacità di esportazione all’estero e nel resto d’Italia, specialmente dei prodotti freschi imbustati e pronti da consumare, famosa per la mozzarella di bufala e la rucola. Un luogo ideale per il suo clima, che ha permesso a tante imprese agricole e zootecniche di diventare importanti, grandi e con un futuro radioso.

Questa agricoltura non ha eliminato, però, il ricorso al caporalato. Non ha eliminato l’utilizzo del lavoro in nero e, soprattutto, del lavoro in grigio, cioè l’abitudine di pagare una parte del salario mensile fuori busta paga in modo da ridurre i contributi da versare. Non ha eliminato le gerarchie di genere (tra maschi e femmine) ed etnico-nazionali (tra italiani, marocchini, rumeni, indiani e nuovi arrivati dal Mali o da altri paesi): lavoratrici e lavoratori pagati e trattati in modi differenziati a seconda della posizione occupata in questa speciale classifica della discriminazione.

Stiamo parlando, dunque, di un’agricoltura modello californiano, che combina insieme altissimi livelli tecnologici con un utilizzo spregiudicato della forza lavoro. E, si faccia attenzione, qui non stiamo parlando di modernità contro arretratezza. No, l’uso spregiudicato della forza lavoro è un elemento moderno quanto l’utilizzo delle serre o dei semi di ultima generazione. Non c’è nessuna arretratezza. L’utilizzo del lavoro nero o del lavoro non pagato in maniera regolare fa parte di questo modo di produrre, non è un dato del passato e, quindi, non è un dato destinato a scomparire.

Non è un caso che l’arrivo di nuovi “tipi” di immigrati, cioè i richiedenti asilo fuoriusciti dal sistema dell’accoglienza, venga assorbito tranquillamente dalla domanda di lavoro delle imprese locali.

Ci sono sempre imprese interessate a una manodopera indebolita da pagare meno e fare lavorare fuori da ogni contratto formale o, comunque, a basso costo. Così come non è un caso che questi immigrati vadano a vivere in ricoveri precari. Se non hanno soldi non hanno alternative ad abitazioni di fortuna e si organizzano con altri con cui condividono le stesse condizioni materiali, aiutandosi, in qualche modo, reciprocamente.

Questo mutuo-aiuto, evidentemente, non è sufficiente per scampare a incidenti sempre possibili quando si va in bicicletta dopo una lunga mattinata di lavoro o alle prime luci del giorno, in assenza di un sistema che garantisca il trasporto verso i campi.

E mentre si continua ad analizzare e denunciare senza esito, un altro ragazzo rischia di lasciarci, dicendoci, suo malgrado, che l’ingiustizia continua ad essere la qualità costitutiva del nostro modo di vivere contemporaneo, un modo di vivere, evidentemente, insopportabile, da cambiare.

©RIPRODUZIONE RISERVATA