IL "PIATTO DEL SANTO"

La milza “doc” di zia Lucia tra gusto, tradizione e storia

L’usanza è siciliana e risale all’epoca medievale quando a Palermo era presente una folta comunità ebraica

SALERNO - La vita di zia Lucia, al secolo Lucia Ricciardi, salernitana “doc”, rampolla della storica famiglia di sarte sopraffini, oscillava tra la cucina perennemente avvolta da odore di cose buone, cappellini con vezzose velette, scarpe modello decollete rigorosamente di pizzo nero e l’aperitivo al bar Varese, appuntamento fisso della domenica dopo la messa in Duomo. Erano gli anno Cinquanta. Fortemente legata alle tradizioni della sua città, dava il meglio di sé proprio in occasione della festa patronale onorando la ricorrenza anche a tavola dove non poteva mancare la milza, il suo piatto forte. D’altra parte è risaputo che la milza sta a San Matteo, come gli struffoli a Natale. Il 21 settembre è d’obbligo, come tradizione comanda, cucinarla non solo nelle case, ma anche per strada a cura di ambulanti che sono veri maestri nella preparazione di questa pietanza. L’usanza è siciliana e risale all’epoca medievale quando a Palermo era presente una folta comunità ebraica, i cui membri di eccellevano nella macellazione dei bovini. La loro fede religiosa, però, li obbligava a non percepire danaro per questa attività, così a titolo di ricompensa, trattenevano le interiora, tra cui la milza, che rivendevano cotte ai “gentili”.

Nel 1492 Ferdinando II d’Aragona, detto il Cattolico, allontanò la comunità dai territori sottoposti al dominio spagnolo; il mestiere passò ai “caciuttari”, venditori di pane ripieno di formaggi, che dopo aver fritto i pezzi di milza nello strutto, arricchivano così la farcitura dei loro panini. È grazie al “file rouge” che sottende la cultura gastronomica del Regno delle Due Sicilie, che questo piatto arrivò nel Salernitano, complice anche il basso costo della materia prima. Questa versione è però più ricca perché la cucina è sempre un “divenire” che si adatta alla materia prima del territorio. La milza di zia Lucia prevedeva, infatti, una profumatissima imbottitura di erbe aromatiche, prezzemolo, menta, aglio ed una cottura lenta e prolungata che cominciava nelle primissime ore del mattino. Ma prima di ciò c’era stato tutto il rituale dell’approvvigionamento.

Le “tasche” di milza andavano comprate, almeno il giorno prima, dal macellaio di fiducia che ogni anno veniva sottoposto a un vero interrogatorio degno di un agente del Kgb negli anni della guerra fredda, sulla provenienza dell’animale. La mentuccia era quella coltivata nel vaso allocato, sempre al solito posto, sul balconcino che, civettuolo, faceva capolino su via Mercanti, così pure il prezzemolo. Il giorno prima della festa le interiora venivano messe a bagno in acqua fredda e sorvegliate dalla parte femminile della famiglia a cui erano affidati i compiti più umili. La mattina della festa scendeva in campo la “sacerdotessa” Lucia che con gesti antichi e sguardo amorevole terminava la preparazione della sua milza, giusto in tempo per la solenne messa in Duomo e l’aperitivo al bar Varese, non senza aver indossato uno dei suoi meravigliosi cappellini.

Carmen Autuori