L’Aglianicone di Felitto tra felci e antiche tradizioni

Un vitigno raro per il Cru di un’azienda che punta all’innovazione

di Barbara Cangiano

“Chinati davanti a te stanno gli dei, lodando la forza del creatore. Re e capo di ogni dio, noi celebriamo la tua forza perché tu ci hai creati. Ti veneriamo perché tu ci hai formati. Cantiamo inni di lode perché tu ci protegga”. Recita così l’inno ad Amon, divinità egizia che presta il nome al Fiano in purezza prodotto da Cantina Rizzo di Felitto. E’ l’unico bianco dell’azienda e forse proprio per questo il patròn, nonchè enologo ed agronomo Gianvito . Capozzoli (nella foto) ha voluto conferirgli un’impronta più che regale. Situata alle pendici del monte Chianiello e ad una manciata di metri dalle gole del fiume Calore, l’azienda agricola che dal 1970 produce uva e olive, nel 2004 si è riconvertita lanciando il guanto della sfida al pianeta vino. «Prima coltivavamo i vigneti, per poi conferire le uve alla cantina sociale di San Lorenzo. Quando mi sono laureato ho iniziato a lavorare lì per fare pratica sul campo e dopo aver acquisito l’esperienza necessaria, con l’ausilio di mia sorella Maria Rosaria e l’appoggio di mia mamma, Antonia Rizzo, abbiamo deciso di vinificare in proprio e dunque di imbottigliare» racconta Capozzoli. Dei dieci ettari in cui il verde rigoglioso è rotto dal viola degli acini, circa la metà è vitato, per una produzione che, a seconda delle annate, regala dalle dieci alle quindicimila bottiglie. «Non ci interessano i grandi numeri, puntiamo sulla qualità». E la conferma arriva dal fatto che accanto ai più “scontati” come Aglianico, Merlot e Fiano, brilla per rarità l’antico Aglianicone, un vitigno autoctono della zona che fino ai primi del Novecento veniva adoperato per tagliare altri vini, grazie al suo profumo di marasca. Conosciuto già in epoca romana e trasferito molto probabilmente in Italia con la colonizzazione meridionale ad opera dei Greci, è poi caduto nel dimenticatoio perché difficile da curare e poco generoso nella rendita dei grappoli. «Abbiamo deciso di portare avanti, insieme a pochi altri viticoltori, un progetto della Regione per il recupero di queste varietà. Volevamo sperimentarlo in purezza: essendo ricco di tannini molto duri, è ideale per l’invecchiamento. Il nostro ha le caratteristiche di un Taurasi - continua Capozzoli - riposa per tre anni in botte e per altri due si affina in bottiglia». Sua maestà l’Aglianicone è dunque una riserva che rappresenta il Cru dell’azienda, che lo commercializza con il nome Il Canto della vigna, “rubato” al salmo 80 dell’Antico testamento.

La sapiente miscela di Merlot ed Aglianico, in due blend differenti, dà invece vita ai rossi Il sorriso e Fiix: il primo è un invito al buonumore, il secondo racchiude in sé il toponimo dell’antica Felitto e rimanda alle felci di cui la zona è ricca. Nonostante le battaglie quotidiane «con un sistema burocratico a dir poco farraginoso», Cantina Rizzo incassa quotidianamente il gradimento di una platea che, dai confini salernitani, si è estesa fino in Germania ed in Svizzera, senza considerare il placet degli esperti del settore (tra cui le segnalazioni di Vini buoni d’Italia). «Il merito è della passione e dell’impegno», rimarca Capozzoli, che ha voluto recuperare la tradizione arcaica, strizzando un occhio al presente. Basta guardare le etichette per rendersi immediatamente conto che l’azienda sa offrire un messaggio di contemporaneità. E così il segno grafico, pulito ed essenziale, è stato affidato allo studio salernitano Grafite (che ha curato anche il logo e il sito). «Fiix ed Amon sono contrassegnati da grappoli d’uva stilizzati - ricorda Capozzoli - mentre invece per Il Canto della vigna la pigna ricorda un sassofono. L’immagine che contrassegna Il sorriso ci è invece stata donata da un giovane artista romano. Racchiude gli elementi che fanno parte delle nostre origini: una lingua di terreno arato, la montagna ed il fiume che vi scorre».

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