il personaggio

Incrociò il destino quella sera d'estate in via Velia

Il maestro di Castelnuovo Cilento fu coinvolto nel 1972 nel delitto Falvella in via Velia a Salerno

Ora che tutto o quasi è compiuto, e che le Corti di Giustizia vanno esaurendo la loro affannata liturgia; ora che un altro amaro calice è stato bevuto; ora che lo Stato ha redistribuito pene e responsabilità e la sua storia è vischiosa materia per legulei annoiati che, come i soggetti di certi ritratti impressionistici, avidi se ne impiastricciano le mani; ora si può avanzare il legittimo sospetto che non 3 giorni sia durata la straziante agonia di Franco Mastrogiovanni, ma 37 anni, 27 giorni e 88 ore. E che egli abbia cominciato a lasciarci quella lontana sera di luglio in cui, a 21 anni e una testa piena di riccioli e sogni d’anarchia, nelle orecchie le canzoni di Guccini e nel cuore la speranza di un mondo finalmente capovolto, la violenza cieca e la morte gli attraversarono la vita. Penetrandogli le carni da parte a parte.

L’epilogo, l’esito, il finale di partita, è stato coerente con tutto il resto: un letto di contenzione, strumento orrendo da Santa Inquisizione, legacci che segano i tendini, un metro e novanta d’uomo ridotto pelleossa. Tutta una vita in 88 ore: le convenzioni e le costrizioni, i fantasmi e l’esistenza, gabbie senza vie d’uscita. I ragazzi della scuola che lo chiamavano “il maestro più alto del mondo”, e le guardie. Quante guardie quel giorno di fine luglio del 2009 ad Acciaroli. Poliziotti, carabinieri, vigili. Mancavano solo la Finanza, l’Esercito e la Forestale, non fecero in tempo ad avvisare i paracadutisti. E Franco che li guardava, stranito: riviveva scena per scena l’altro luglio, quello del ’72.

E cantava, Franco, a squarciagola: per tenere lontano gli spettri che lo visitavano di notte, gli si paravano davanti e gli parlavano, implacabili, di storie antiche di amore e anarchia, di sangue e di coltello. “Addio Lugano bella” e l’“Inno dei malfattori”. Cantava, povero Franco, “intonando inni contro il governo”: così nel verbale del Tso, trattamento sanitario obbligatorio. Così: “inni contro il governo”; l’ottusa ignoranza da funzionario zarista dei romanzoni russi dell’Ottocento come ultimo, atroce, sberleffo. Franco, poeta. Franco, maestro e educatore. Acchiappanuvole e sognatore. Franco “contro”, a prescindere.

Franco che si prese una coltellata come Carlo Falvella, quella sera di luglio, ma la sorte malvagia scelse l’altro, il fascista. E a lui, non a Giovanni Marini, l’assassino; non a Giovanni Scariati, il più piccolo dei tre anarchici; a lui solo toccò la peggiore delle condanne: trasportare il peso del ricordo e del rimorso. Ci furono moti di piazza e una mezza rivoluzione, quell’estate. La morte di un giovane di 18 anni, pure lui in lotta per rivoltare il destino di una generazione bellissima e dannata, divenne mito fondativo. Da una parte e dall’altra; gonfiò a dismisura la retorica del martirio tra i neri, ancora oggi ostaggi di aggressive nostalgie raggrumate intorno al (bruttissimo) monumento di pietra in via Velia, a Salerno; alimentò la perversa suggestione della persecuzione dello Stato capitalista tra i rossi. Arrivarono Dario Fo e Franca Rame e, in appoggio a Diego Cacciatore e Marcello Torre, grande esperto di legittima difesa, calarono a Salerno prima e a Vallo poi, dove fu spostato il processo perché in città l’atmosfera era diventata incandescente per via degli scontri tra rossi e neri, Giuliano Spazzali, e Umberto Terracini, tra i fondatori nel ’21 con Gramsci, Togliatti e l’ingegnere Bordiga, del Partito comunista e padre della Costituzione. E Gaetano Pecorella, che dormì nel letto (inutilizzato perché il legittimo titolare nel frattempo era volato a Milano, a cercare di placare, in toga da pubblico ministero, l’inesausta ansia di giustizia che lo divorava e lo divora) di Michelangelo Russo, il giudice d’appello di ieri, perché di soldi per l’albergo i compagni non ne avevano, e ci si doveva arrangiare.

Come chiamarlo? Destino? Fato? Disegno divino (per chi ci crede)? O circolarità della Storia, che si diverte a muovere gli uomini come pupazzi inanimati sui suoi (apparentemente) assurdi scenari inclinati, divertendosi a farli rotolare, incontrare e poi ritrovare in vita, ma anche in morte? La giustizia borghese a cui si volle opporre quella, astratta, di classe - in pratica solo un’aspirazione, fece il suo corso e in parte continuò a farlo. Franco ci finiva dentro come gli insetti sulla carta moschicida. Ogni volta stritolato in quegli ingranaggi micidiali, terrorizzato dalle macchine della paura. La carsica vena borbonica e fascista che ha attraversato lo Stato unitario e un lungo pezzo di storia repubblicana si gonfiava tutte le volte che Franco “usciva dal seminato”, espressione orrenda che qui da noi marchia a fuoco i ribelli, gli irregolari. Come quando si beccò due anni e 9 mesi per aver protestato troppo vivacemente con i carabinieri per una multa per divieto di sosta. Accusato ingiustamente, fu poi risarcito dallo Stato. Nessun risarcimento potrà restituircelo, ora che è puro spirito, essenza incontaminata di libertà. Ed esempio. Mai più pene, né oblio, Franco: nessuno muore invano, a questo mondo.