GIUSTIZIA LUMACA

Incendio e truffa, assolto dopo 22 anni

L’odissea dell’imprenditore Marigliano: cadute le accuse per il rogo al suo negozio d’abbigliamento avvenuto nel 2000

SALERNO - Ha rinunciato alla prescrizione e per 22 anni, assistito dall’avvocato Davide Ferrazzano , è andato avanti alla ricerca della verità, per dimostrare la sua innocenza. Sancita giovedì dai giudici della seconda sezione della Corte d’Appello di Napoli che hanno messo fine a una vicenda iniziata 22 anni: assolto con formula piena. È la storia - per molti aspetti paradossale - di Pasquale Marigliano , imprenditore originario del Napoletano e già titolare di un’attività commerciale in traversa Migliaro, a San Leonardo. La “Ditta Centro Moda” era una delle rivendite d’abbigliamento più rinomate della città. Andò distrutta nella notte del 17 agosto del 2000: un incendio, infatti, bruciò ogni cosa in 18 minuti, danneggiando l’intero capannone e due ditte site nella struttura. Un rogo e su cui, inevitabilmente, scattarono gli approfondimenti d’indagine per comprendere cosa fosse accaduto: i vigili del fuoco, nella loro relazione, spinsero per l’evento accidentale, ipotizzando la causa in un corto circuito. E lo stesso fece il perito nominato dalla Procura - le indagini furono affidate al pm Massimo Lo Mastro - che escluse una matrice dolosa.

Sembrava tutto in regola. Finché non entrarono in campo i periti delle assicurazioni (merce e capannoni, infatti, erano assicurati per 1,5 milioni di euro) che, grazie anche alla relazione di un chimico iniziarono a ipotizzare la matrice dolosa, lo spargimento “a macchia di leopardo” di solventi che avrebbero alimentato. Non solo: le compagnie assicurative, infatti, assoldarono anche un’agenzia di investigazione privata che, con il suo lavoro, sottolineò un possibile “accordo” coi titolari delle altre ditte per l’incendio e movimenti bancari “sospetti”, ipotizzando quindi una truffa. Atti che finirono sulla scrivania della Procura e che convinsero il pm che, dunque, chiese il rinvio a giudizio per Pasquale Marigliano, il fratello Luigi (socio e proprietario dei capannoni), il padre ma anche i titolari delle due ditte ospitate nella struttura distrutta dalle fiamme. La richiesta fu accolta: iniziò il processo che portò a tre assoluzioni e, soprattutto, alla condanna a 3 anni e 4 mesi di Marigliano, del fratello e del titolare di una delle due ditte di traversa Migliaro, accusati a vario titolo di incendio doloso e tentata truffa ai danni di compagnie assicurative. A nulla servirono le rimostranze della difesa che evidenziarono come il teste chiave dell’accusa, il chimico che aveva sottolineato la presenza di inneschi, non fu ascoltato in aula e che, dunque, la relazione fosse di fatto “inservibile”.

La sentenza fu impugnata in Appello dove ci fu un ennesimo colpo di scena: i giudici salernitani, infatti, nominarono un proprio perito che, nella sua relazione, confermò l’ipotesi del dolo ma cambiò completamente la ricostruzione dei fatti. E sulla base di quegli atti, il 18 novembre del 2013 furono confermate le condanne. Pasquale Marigliano, però, era deciso ad andare avanti: rinunciò alla prescrizione e, tramite il suo legale, presentò ricorso in Cassazione che annullò la sentenza rinviandola alla Corte d’Appello di Napoli, chiedendo di ascoltare (come non accaduto dieci anni prima) il chimico che produsse la relazione-chiave. Che, a differenza di quanto accaduto in precedenza, a oltre 80 anni si presentò in aula, dando vita alla testimonianza decisiva per l’intero processo in cui sono emerse una serie di contraddizioni rispetto alle tesi dell’accusa e che, a distanza di 22 anni dall’incendio, hanno portato alla svolta: Marigliano è stato assolto dall’accusa per l’incendio per non aver commesso il fatto e per la tentata truffa perché il fatto non sussiste. «Era commosso alla sentenza, per anni ha sentito un carico di responsabilità enorme per questa vicenda», ha evidenziato l’avvocato Ferrazzano. «Adesso saranno attivate le procedure per il risarcimento del danno dell’incendio da parte delle assicurazioni. Vi è stato un vero accanimento, anche in considerazione del fatto che semplici indizi tra di loro non univoci sono stati volutamente contrabbandati come prove, letti soltanto in chiave colpevolista».