IL RISORGIMENTO NEL SALERNITANODodicesima puntata: il canonico che si consegnò per salvare Celle

La repressione borbonica fu feroce. Il generale Del Carretto fece bruciare Bosco e il sacerdote volle evitare la stessa sorte al suo paese

Le radici del 1848 erano negli intensi e drammatici anni della Rivoluzione e del Grande Impero, la premessa era nelle cospirazioni liberali che si susseguirono negli anni Venti del secolo. Una delle più celebri, in Italia e in Europa, fu la rivolta cilentana del 1828. Nel 1821 la Santa Alleanza e il Borbone avevano represso il tentativo di fondare a Napoli uno Stato costituzionale. Il liberalismo, però, non aveva rinunciato alla sua azione politica. Anche se gran parte dei dirigenti erano in esilio o in carcere, continuavano le antiche cospirazioni della setta, il nome con cui la carboneria era entrata nell’immaginario meridionale.

Si susseguirono piccole rivolte e congiure. In ogni paese queste degenerarono in una lotta frontale tra i carbonari e i sostenitori dell’assolutismo, i calderari. Un conflitto spesso confuso con odi personali e familiari o con le rivalitá tipiche della politica locale. Polizia e magistratura borbonica erano sempre in guardia. Nel 1822 furono scoperti gruppi carbonari di Policastro, Vibonati e Cardile, molti furono imprigionati. L’anno dopo le retate delle forze di sicurezza colpirono le vendite, il nome delle sezioni locali della carboneria, di Omignano, San Gregorio Magno, Montecorvino e San Mango. Scontri con la forza pubblica si registrarono a Cava e a Buccino, Campora e Sacco. Nel 1824 episodi simili furono registrati a Eboli, Nocera e Caggiano.

L’episodio più celebre avvenne una notte dell’autunno di quello stesso anno ad Acerno, nei monti Picentini. La polizia borbonica irruppe durante un’assemblea della carboneria a cui partecipavano esponenti dei paesi e delle province vicine. Una ventina di liberali furono arrestati, almeno altrettanti riuscirono a fuggire e si resero latitanti. Tanti furono poi condannati a molti anni di carcere. Qualche tempo dopo, a Raito, la frazione di Vietri sul Mare, fu sgominata un’altra grossa organizzazione carbonara. Tra tante congiure e repressioni, fu il moto del Cilento del 1828 a raggiungere il palcoscenico nazionale ed internazionale. Un ex parlamentare cilentano, il canonico Antonio Maria De Luca, di Celle di Bulgheria, era tra i più attivi dirigenti della setta dei Filadelfi, un’organizzazione di origine francese che aveva la sua Camera Alta, il comitato operativo, a Napoli. C’era poi una vasta rete nelle provincie, soprattutto nel Salernitano e nel Cilento.

La biografia di De Luca era l’ennesimo esempio della militanza politica risorgimentale: incarcerato dai borbonici nel 1798 e poi ancora nel ’99, carbonaro durante e dopo il decennio francese, era stato uno dei sette accesi parlamentari salernitani del 1820. Alla fine del decennio, De Luca, con Antonio Gallotti di Ascoli Satriano e vari corrispondenti nelle province, disegnò un’insurrezione che avrebbe dovuto ripetere i fatti di otto anni prima. Fu proprio Gallotti però a far scoprire la congiura. Si era ingenuamente confidato con un amico di Angri che corse a spifferare tutto alla polizia. A Napoli e a Salerno furono arrestati tutti gli affiliati.

Capito il grave errore, Gallotti fuggì nel Cilento travestito da frate. Nel frattempo De Luca, i fratelli De Mattia di Vallo (nipoti di un patriota ucciso nel ’99) e altri cilentani confinati a Napoli, erano giunti clandestinamente a Vallo della Lucania. Si era alla fine della primavera del 1828. Furono convocati patrioti e liberali dai paesi vicini, del Cilento rivoluzionario: Angelo Lerro, di Omignano, Teodosio de Dominicis, di Ascea, i fratelli Catarina di Omignano, i famosi fratelli Capozzoli di Monteforte (da anni latitanti) e moltissimi altri. Si decise la rivolta. Una numerosa colonna di insorti marciò su Palinuro. Il piccolo forte che domina le spiagge del centro cilentano fu occupato dai liberali. Era il 28 giugno del 1828.

Fu formato un governo provvisorio e lanciato un proclama che reclamava la costituzione francese e chiamava all’armi questo popolo tutto. Corrieri correvano per raggiungere le varie vendite della provincia di Salerno. La colonna giunse a Camerota, si scontrò con un gruppo di fedeli del Borbone a San Giovanni a Piro e raggiunse poi il paese di Bosco, mentre altri paesi e molti entusiasti si aggregarono ai liberali. Fu inutile. Il governo borbonico, a conoscenza di tutto, era intervenuto con feroce efficienza. A Vallo erano giunti numerosi reggimenti di fanteria e cavalleria, genio e artiglieria, guidati dal generale Francesco Del Carretto. Il Re Francesco I gli aveva dato l’alter ego, cioè potere assoluto. Altre forze erano sbarcate a Palinuro, un distaccamento occupò Camerota.

Vista la situazione oramai disperata, Antonio De Luca ordinò ai liberali cilentani di disperdersi. Iniziò un feroce ed imponente rastrellamento delle forze di sicurezza del Re. Reparti regolari e paramilitari misero a ferro e fuoco il Cilento. Per ordine di Del Carretto il paese di Bosco fu adequato al suolo, cioè fu bruciato. Il suo nome sará cancellato dall’albo dei comuni del Regno, scriveva il proclama del generale borbonico. Grandissima parte dei congiurati, a Napoli, a Salerno e nel Cilento, fu catturata e trascinata nelle carceri. La repressione fu tremenda. Decine di liberali furono processati e fucilati nei propri paesi per dare l’esempio, altri giustiziati sommariamente (come avvenne sulla strada di Rutino). De Luca, di fronte alla minaccia di Del Carretto di radere al suolo anche il suo paese, Celle, si consegnò. Lui e il nipote erano preti. Per giustiziarli dovevano essere sconsacrati ma né il vescovo di Vallo né quello di Capaccio si prestarono.

Lo fece invece il loro collega di Salerno. Portati nella sagrestia del Duomo, l’Arcivescovo gli strappò le vesti e gli rase la tonsura. Il 24 luglio furono fucilati sul sito dell’attuale via Roma, poco più avanti dell’attuale Tribunale, dove pochi anni prima era toccata la stessa sorte ad alcuni dei protagonisti dei moti del 1820. La stessa fine fecero Lerro, De Dominicis e tanti altri. Un esempio per tutti fu quello dei fratelli De Mattia. Uno morì per le sevizie sulla strada di Rutino, Donato. Gli altri due dovevano essere fucilati a Salerno.

Nel racconto della leggenda cilentana una loro zia poté scegliere chi salvare tra loro, e fu il più giovane, Diego. Cosa che, sempre nel mito, gli costò la follia, perché l’altro, Emilio, fu giustiziato. Solo alcuni riuscirono a fuggire avventurosamente in Francia o in Corsica. Tra loro Gallotti e i fratelli Capozzoli, tanto temuti dalla polizia borbonica. Il primo però fu consegnato alla giustizia borbonica (anche se fu poi salvato dall’azione diplomatica francese). I tre fratelli di Monteforte, che erano stati alla macchia anche molti anni prima del ’28, tornarono invece in patria, continuando una clandestinitá protetta dai tanti amici e complici cilentani.

Anche loro però furono traditi. Erano ad una festa per un matrimonio, a Perito. Furono circondati dai soldati borbonici ed arrestati dopo una lunga sparatoria. Trascinati al forte di Palinuro, vennero giustiziati e le loro teste furono mozzate ed esposte in pubblico. Tutto questo non servì al Borbone. Nell’estate del 1860 una colonna di garibaldini cilentani, guidata da Pietro Giordano di Ceraso e dal nipote di De Dominicis tolse quei resti e li seppellì. Ma, con quelle spoglie, fu seppellita e per sempre, anche la casa di Borbone.

* Docente di Storia contemporanea facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno

© RIPRODUZIONE RISERVATA