Il risorgimento nel Salernitano. I referenti di Pisacane scoperti e arrestati prima dello sbarco

Un sacerdote teneva le fila della cospirazione nella nostra provincia. Il gruppo venne annientato grazie a un infiltrato

Qualche anno fa un film di Ennio Lorenzini, Quant’è bello lu murire acciso, raccontò la Spedizione di Pisacane. Una marcia in un territorio sperduto, assolato ed emarginato, tra gente spaventata ed indifferente. Il Risorgimento salernitano che stiamo esplorando da qualche settimana ci mostra un volto diverso, popolato di protagonisti, movimenti e vicende in gran parte dimenticati negli archivi e in vecchi libri. Il Mezzogiorno, terra di infinite rivoluzioni e cospirazioni, fu individuato dai democratici e da Mazzini come la polveriera d’Italia per rilanciare la rivoluzione nazionale interrotta nel fatale 1849. Al sud operava un comitato segreto mazziniano con una sede centrale napoletana ed una vasta diramazione nelle province, guidato da Giuseppe Fanelli (dopo l’arresto del fondatore Nicola Mignogna). La corrispondenza che da Napoli si dirigeva alle province o a Mazzini, Pisacane e altri dirigenti democratici a Genova, è stata miracolosamente conservata (nel Museo di San Martino a Napoli). Da questi documenti, dagli atti dei processi o da tante memorie emerge un mondo di repressioni e cospirazioni, di coraggio e di viltá, parte di un lungo conflitto civile ed ideologico che da decenni tormentava il Regno delle Due Sicilie.

Il comitato non aveva molto seguito nella capitale ma era radicato nelle provincie. Al vertice erano Giacinto Albini in Basilicata, Giovanni Matina a Salerno, Giuseppe Libertini a Lecce e Alessandro Mauro in Calabria. Nel salernitano fu il primo serio tentativo di organizzazione clandestina dopo i processi seguiti al ’48 (le corti speciali borboniche avevano comminato 4500 pene per reati politici, quasi il 20% in provincia di Salerno, senza contare gli esiliati). Era la storia ripetuta nel 1799, nel 1821, nel 1828, nel 1837 nella lunga lotta tra legittimismo e costituzionalismo, liberalismo e assolutismo. Gli uomini della sinistra radicale e mazziniana erano esponenti della piccola borghesia, molto radicati nei loro territori e negli ambienti popolari, quasi sempre eredi di famiglie con consolidate tradizioni politiche. I fratelli Lucio, Michele e Salvatore Magnoni, di Rutino, erano professionisti e proprietari influenti nel Cilento. I Santelmo di Padula erano eredi di generazioni rivoluzionarie. Medici, avvocati e proprietari erano altri dirigenti importanti come Michele Matina e Antonio Carrano di Teggiano, Giuseppe Verdoliva e Carlo De Angelis del distretto di Torchiara, Claudio Verdile di Campagna, Pasquale Cerruti di Albanella e Lorenzo Curzio di Sant’Angelo a Fasanella. Al clero appartenevano invece Vincenzo Padula e Giuseppe Cardillo, padre Ludovico e l’abate Marotta di Postiglione.

Tutti (tranne i giovanissimi come Padula) avevano partecipato ai moti del '48. L’organizzazione ricorda un partito politico moderno: il comitato centrale a Napoli, poi un coordinamento provinciale e i responsabili dei distretti e delle sezioni locali. In ogni settore un responsabile doveva occuparsi di reclutare adepti o procurare armi, agitare propaganda politica o controllare infiltrazioni della polizia. Dalle lettere cifrate conservate a Napoli, secondo gli statini preparati da Michele Magnoni e Vincenzo Padula alla fine del ’56, emerge una rete capillare distribuita nei distretti del Cilento, del Vallo di Diano e dell’Alto Sele. I comitati mantenevano ampie corrispondenze segrete, utilizzando cifre e caratteri simpatici, preparati con ingredienti chimici. Una recente ricerca elenca ben tredici cifrari. La comunicazione interna era attivissima, giungeva anche nei carceri e nei bagni penali. Se si aggiunge la quantitá di riunioni, incontri, corrieri, depositi, si può immaginare il lavoro necessario per il radicamento di un processo politico che coinvolgeva nel solo salernitano decine e decine di comuni. I tempi però erano difficili, il Regno di Ferdinando II solido, le sue istituzioni rette con pugno di ferro. Non era certo un lavoro facile, quello della clandestinitá, con i drammatici limiti che questo imponeva. Un arresto poteva spezzare per mesi relazioni costruite con infinito lavoro. Tutto mentre si svolgeva una lotta feroce contro le istituzioni borboniche, la polizia e i partigiani della dinastia che trasformava ogni paese in un campo di battaglia sotterraneo. Erano i Palmieri a Polla e i Perazzo a Vibonati, i Colletti a Teggiano e i Santomauro a Padula che tenevano le fila del partito borbonico e attraverso uomini come Sabino Laveglia a Sanza o Gallo a Padula, reggevano quella rete paramilitare, gli Urbani, che affiancava le forze regolari. Vincenzo Padula scriveva a Pisacane che erano pericolosi ma non ce ne fanno paura, perché voi sapete benissimo, l’uomo libero non teme punto della gente mercenaria. Restava una guerra senza esclusioni di colpi. Le forze di sicurezza borbonica individuarono infatti la rete rivoluzionaria. Dopo l’arresto di Mignogna furono scoperti anche Libertini e Mauro, restavano solo i salernitani e i lucani. E ai primi toccava la responsabilitá primaria della Spedizione. Ma non era finita. Nell’autunno del ’56 una colonna mobile fu inviata a rastrellare il Cilento rivoluzionario. Furono arrestate più di cento persone (tra cui i fratelli Magnoni e i loro collaboratori).

Qualche giorno dopo anche Matina fu incarcerato (per l’ennesima volta) e con lui molti di Teggiano, poi fu il turno di corrieri nel convento dei francescani di Padula. Era restato libero solo Vincenzo Padula a mantenere le fila della cospirazione nel salernitano, un originale esempio di sacerdote mazziniano appassionato e deciso di cui Pisacane si fidava completamente. L’intelligence borbonica riuscì però ad infiltrare un traditore, Biagio Grezzuti, di Sala. Così nel mese di aprile venne arrestato Vincenzo Gerbasio che portava in Basilicata la corrispondenza di Padula, poi il sacerdote e i suoi collaboratori. Quando Pisacane sbarcò a Sapri lo stato maggiore rivoluzionario era annientato. Padula e Magnoni cercarono lo stesso di attivarsi dal carcere di Salerno ma la colonna era giá stata massacrata. A fianco dei regolari, e con maggiore ferocia, si erano distinti i loro concittadini e nemici, dai Colletti a Laveglia. 120 salernitani (tra cui i capi della rete mazziniana) furono invece tradotti in carcere e processati. Santelmo, Matina, Magnoni e Padula furono condannati a morte e poi all’esilio, altri al confino nelle isole, la maggioranza scarceratati. Per nessuno però c’erano prove. Nonostante le delazioni di Grezzuti nessuno confessò. E la guerra continuava. Tre anni dopo le colonne della rivoluzione garibaldina conquistarono il Vallo di Diano e tra questi c’erano i vecchi corrispondenti di Pisacane. Il governo provvisorio di Sala fece restituire 49 medaglie che erano state distribuite agli urbani da Ferdinando II. Il traditore Grezzuti (che era stato ricompensato dal Borbone con un posto pubblico e un piccolo appalto per i fratelli) riuscì a fuggire. Non ebbero la stessa fortuna Sabino Laveglia (che il Re aveva nominato cavaliere dell’ordine di Francesco I) e i suoi sodali. Catturati dalla colonna cilentana del maggiore garibaldino Cristoforo Ferrara, furono giustiziati a Sanza nel settembre del 1860. Il generale borbonico Ghio si era arreso a Garibaldi qualche giorno prima ingloriosamente. Pisacane era vendicato. Negli stessi giorni Garibaldi, attraversando la Valle si fece indicare i luoghi della tragica Spedizione. Scrisse Nello Rosselli che Pisacane pareva sparito nel nulla. Ma sulla sua vita, sulla sua morte, poteva posare, e posa, uno dei piloni granitici dell’edificio italiano.

* Docente di Storia
contemporanea
facoltá di Lettere e Filosofia
dell’Università di Salerno
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