L'INTERVENTO

Il processo e la rivoluzione Cartabia

Tra referendum e riforme si mette mano alle distorsioni della Giustizia mediatica

Da un lato, riforma della giustizia, con un programma di interventi pensati e discussi, dall’altro, referendum su alcuni punti nevralgici di essa, con una spinta mossa da un sentimento di ineluttabilità; sulla distanza tra i due diversissimi approcci si agitano oggi coscienze giuridiche, nelle quali, non sempre, affondano sensibilità simili. Se la premessa può essere condivisa da entrambi gli schieramenti (non si può più andare avanti così), gli obiettivi tendono a divergere. Sono presi in considerazione una risistemazione organica del processo penale in funzione di attribuire definitivamente all’imputato il suo statuto di garanzie, sulla base del convincimento che il diritto penale celebrato in un aula di giustizia sia il limite alla violazione delle sue libertà, con la proposta di riforma Cartabia, l’espunzione dall’attuale funzionamento del processo di taluni snodi critici- quali la medesima carriera tra pubblici ministeri e giudici- testimoni, tra gli altri, del malfunzionamento della macchina. Il punto di debolezza che si staglia nel cammino, in avanti e a ritroso, tra i due poli è il tiramolla intorno ad interessi politici contingenti; a discapito del valore universale del giusto processo, che dovrebbe prevalere su interessi di parte.

Ad ogni buon conto, c’è un merito indiscutibile che emerge dalla discussione di questi giorni ed è forse il vero punto di rottura con il passato. Ripensare il processo mediatico, le sue finalità e le sue conseguenze. È infatti intorno al processo mediatico che si consumano le più terribili distorsioni dell’attività giurisdizionale, con la mortificazione degli elementari addentellati dello Sato di diritto. Ciò accade per la morbosacercata, blandita, e strumentalizzata- attenzione dei riflettori, e per ciò cui (nemmeno tanto occultamente) tende la rivoluzione digitale della stessa giustizia. Di recente, Antoine Garapon ha parlato al riguardo di despazializzazione, la cui pervasività nelle garanzie è tale da mettere in discussione addirittura la presunzione di innocenza. E se si riflette a fondo, è proprio ciò che accade, laddove il processo mediatico si nutre, per i suoi scopi, del tribunale dell’opinione, il cui metro di giudizio è accusare equivale ad una condanna e la presunzione di innocenza è invece una finzione dilatoria o anche un privilegio a servizio di chi è colpevole a prescindere. Un’evidenza morale, insomma, che prevale sull’evidenza probatoria e che può fare a meno di ogni procedura, soprattutto quando è a tutela dell’innocenza.

Il fatto è che le nostre libertà sono fondate sulla distinzione tra morale e criminale e ricordarlo adesso significa rispondere a chi possa ritenere che è intempestivo difendere oggi l’ordine giudiziario (parlo di funzione, quindi non uso il termine magistratura) nel periodo, cioè, in cui i suoi rappresentanti sono caduti nel più profondo discredito. Non basta, infatti, dire, con tono consolatorio, che comunque ci sono magistrati competenti ed equilibrati (il che è profondamente vero e costoro sono la maggioranza!) perché questo non è sufficiente a far rivedere il concetto culturale che ormai il paese si è andato facendo della magistratura nel suo complesso. Afferma Giostra, che infatti addebitare indistintamente all’esercizio della funzione le condotte di taluni suoi esponenti, non solo è ingiusto, quanto irresponsabile. Sono d’accordo. Una collettività che non crede nella giustizia- si aggiungeè destinata a cercarla altrove (guarda caso: protezioni politiche, potentati economici, corporazioni, associazioni occulte) e sarebbe un preannuncio di disgregazione civile. Per di più, è nel processo dello spettacolo che si concentra l’essenza del potere distorto della giustizia e quanto più è spasmodica la ricerca di visibilità, tanto più è imperiosa la rivendicazione del ruolo, del potere fine a se stesso.

Le prodezze accusatorie giocate nella simbolizzazione morale della scena mediatica, sul cui sfondo si aggira il fantasma della democrazia diretta, da questo punto di vista vanno allora segnalate come la metafora di tutte le disuguaglianze giudiziarie (in cui la parità è bandita, insomma) di un processo che non è previsto dalla legge. Ecco, forse a questo vuole alludere il ministro quando parla di rivoluzione culturale e di ritorno alla Costituzione, alla efficienza di un processo che risolva il crollo delle mediazioni sociali tradizionali (il processo fatto nelle aule di giustizia), le quali, invece, se despazializzate, obbediscono solo a procedure non istituzionali.