IL COMMENTO

Il nuovo compito della scuola? Ricostruire un alfabeto di civiltà

di ALESSANDRO TURCHI

La vicenda della Sea-Watch 3 ci restituisce ancora una volta l’idea di una Italia spaccata fra modi di sentire e di pensare diversi. Sempre più, leggendo i giornali, ascoltando e vedendo i vari servizi Tv, si ha come l’impressione della presenza di due Nazioni, completamente divise fra loro e decisamente straniere l’una rispetto all’altra. E non stiamo parlando di Nord e Sud, di ricchi e poveri, di colti ed incolti, stiamo accennando a due modi diversi e assolutamente antitetici di vivere gli accadimenti. In questo caso il macro fenomeno dell’immigrazione e, quindi, delle tematiche legate alla globalizzazione.

Lo diciamo senza mezzi termini, il problema è soprattutto culturale, anzi, di mero livello di istruzione, non a caso la nostra nazione, a causa delle scellerate politiche di tagli di questi ultimi dieci anni, si ritrova agli ultimissimi posti in Europa, come investimenti sulla scuola. Difficile comprendere i fenomeni nuovi se mancano poi i riferimenti, se non c’è neanche uno studio sistematico della storia, se non ci si abitua a mettere in connessione gli accadimenti fra loro, se non si cerca di capire cosa stia succedendo nel mondo, quali siano i fenomeni economici emergenti e in che modo sta avvenendo la redistribuzione delle ricchezze nel mondo. Ci troviamo al cospetto di un’Italia malata a livello di rapporti sociali, in cui l’egoismo, l’aggressività, la chiusura verso l’altro, la fanno da padroni.

Un popolo che spesso si chiude in se stesso, che non comprende, che ha un orizzonte molto ravvicinato ed è incapace di vedere oltre, con tanti nostri connazionali che non avendo chiaro il quadro di riferimento, si rifugiano nella rivalutazione a tutti i costi dei miti del passato, nella tradizione, nelle solite risposte note e rassicuranti, quelle di chiusura, di protezione, di tranquillità. Questa Italia è quella che chiude gli occhi, che si tranquillizza sentendo frasi banali che hanno a che fare con i rimpatri, gli aiuti a casa loro, la chiusura dei porti, il “prima gli italiani”, parole spesso vuote, ma rassicuranti e in definitiva piene di promesse.

C’è poi un’Italia apparentemente minoritaria, qualcuno dice elitaria, che continua a farsi domande, che sa dubitare, che è abituata a porsi problemi e a ricercare soluzioni senza luoghi comuni, l’Italia che si chiede dove vadano a finire gli immigrati usciti dai centri di smistamento smantellati, quella che sapendo che il sistema pensionistico regge anche grazie ai contributi versati dagli extracomunitari, si interroga su chi pagherebbe le pensioni ai nostri figli se abolissimo l’immigrazione. C’è un’Italia dei pochi che continua ad avere una visione plurale, che continua ad interrogarsi, smarrita, sull’umanità residua di un popolo, il nostro, che una volta si vantava di non essere razzista e che oggi, soprattutto, si affida alle frasi fatte per chiudere meglio gli occhi di fronte a quello che non capisce. Si fa imperioso il bisogno di scuola, di istruzione, di formazione, visto che con i luoghi comuni non si cresce e non si va avanti, c’è la necessità che i nostri concittadini, se vogliamo ricostruire quel tessuto sociale che sembra sempre più smarrito, apprendano a leggere la realtà con spirito critico.

Se la scuola, negli anni Cinquanta e Sessanta, ha saputo accompagnare, con la propria presenza pervasiva, il boom economico, l’urbanizzazione e la crescita del Pil, oggi ha un nuovo compito, deve farsi carico di accompagnare la crescita civile e culturale degli italiani, ricostruendo quell’alfabeto di civiltà che sempre più sembra smarrito.