l’intervista

"Il mio progetto è restato chiuso in un cassetto"

L'architetto Monestiroli: Avevamo immaginato luoghi per la collettività e percorsi e una piazza che potessero diventare attrattori turistici

SALERNO. «Sono convinto che ogni volta che si fa un progetto ci si assume una responsabilità civile, nel senso che il nostro lavoro è legato ai problemi della città e quindi della società». L’architetto milanese Antonio Monestiroli, professore emerito di composizione architettonica al Politecnico di Milano, è tra i progettisti che nel 1997 furono selezionati, nell’ambito del concorso internazionale di idee promosso dal Comune, per ristrutturare le vecchie carceri e riqualificare la parte alta del centro storico. Ma quei disegni, che risalgono ormai a quasi vent’anni fa, «sono finiti nel dimenticatoio».

Architetto, lei e di Manuel de Las Casas avevate immaginate un recupero degli ex conventi come un sistema unitario per il risanamento di un luogo dimenticato dove oggi regna il più totale abbandono.

«Da cittadino e da architetto, posso solo dire che è un vero peccato. Non sono un urbanista, né un politico, ma ho sempre immaginato la progettazione come un’azione civile, che potesse riqualificare, attraverso gli spazi architettonici, il tessuto sociale. E nel caso di Salerno non è stato così».

Il suo progetto cosa prevedeva?

«Non avevo volutamente proposto una destinazione d’uso, perché le vecchie carceri, che poi sono ex conventi, hanno una tipologia che li rende adattabili a diverse funzioni. Sono molto plastici e possono essere riconvertiti in scuole, residenze, edifici per la sanità. Luoghi a servizio della collettività. La cosa più interessante è la loro posizione, per questo si era immaginato un percorso che in sé avrebbe potuto diventare un attrattore turistico. Con un punto strategico, dove ricavare una piazza allungata che oggi ancora manca in quella porzione degradata di centro storico. L’idea era quella di farne uno spazio per il quartiere dove poter richiamare anche i turisti».

Il concorso però è restato lettera morta e i fondi che furono stanziati dall’Unione europea sono stati successivamente stornati su altri progetti, a partire dalla riqualificazione del fronte del mare. Come se lo spiega?

«Si tratta di scelte dettate dalla sensibilità e dalla politica. A Milano, per esempio, non succede, perché l’amministrazione è stata in grado di stabilire un buon rapporto con i privati che hanno intuito subito che la riqualificazione dei centri storici può essere foriera di guadagni. Viceversa ci sono città come Genova o la stessa Barcellona, che brilla come capitale dell’architettura contemporanea, dove nessuno intende ristrutturare la città vecchia. Perché? Forse l’imprenditoria privata non reputa attraente questa tipologia di intervento. Non è semplice capire la logica sottesa a certe scelte. Alle volte può limitarsi tutto solo a una questione di sensibilità personale. Per quello che mi riguarda è terribile pensare che un patrimonio storico-artistico cada a pezzi, ma lo ripeto, sono solo un architetto e non ho velleità da politico».

Il presidente dell’Ordine degli architetti di Salerno ha sottolineato l’attualità del suo progetto per le vecchie carceri. Lei è d’accordo oppure lo reputa datato?

«Concordo perché giudico attuali tutti i progetti che ho fatto. Ed è brutto veder morire un’idea in un cassetto. Se il Comune decidesse di intervenire sarei il primo a essere felice. Con me ho un team di giovani appassionati, sarebbe bello lanciarci in questa avventura. Non sarebbe certamente facile, perché già all’epoca le condizioni strutturali degli ex conventi erano alquanto complesse, tant’è che ho sempre pensato che il Comune abbia più volte avuto la tentazione di buttarli giù. Però intervenire è possibile e secondo me, è anche doveroso, nel solco di quel concetto “civile” di architettura che contraddistingue il mio segno e quello dei miei collaboratori».

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