IL REPORTAGE

Il “limbo” Fonderie «Lavoro, non veleni»

I Pisano: «Siamo i primi a voler andare via. Mercurio? Macché»

SALERNO - «Eccoci qui. Brutti, sporchi e cattivi, no?». Ciro Pisano abbozza un sorriso mentre cita Ettore Scola e dà il benvenuto. Benvenuti alla maxi-fabbrica di via Dei Greci, lungo la striscia d’asfalto che unisce il capoluogo alla Valle dell’Irno. Benvenuti alle controverse “Fonderie Pisano”, la fortezza della ghisa che, dall’alto di Fratte, da 60 anni sovrasta Salerno. Era il 1961: i fonditori si lasciarono alle spalle il vecchio quartier generale, a due passi dalla stazione ferroviaria, ed approdarono a meno d’un miglio da Cologna di Pellezzano. Era una zona industriale, via dei Greci. Era. «Il peccato che scontiamo è che adesso la vocazione di quest’area non è più quella», tuona Pisano. Evidenze del tempo che scorre: delle “Cotoniere” rimane soltanto il nome d’un centro commerciale, i vetrai sono spariti, chi realizzava mobili in ferro ha chiuso per sempre.

Anno Domini 2021, il 14esimo d.P., che sta per dopo Puc, il Piano urbanistico comunale che ha ridisegnato i quartieri all’ombra del Castello Arechi. Stormi di ruspe assaltano le cittadelle industriali d’un tempo, e le gru costruiscono palazzi e grattacieli. Selve d’appartamenti, sempre più piccoli. Sempre più belli. Sempre più costosi. Sempre più sold-out , mentre d’intorno imperversano selve oscure di case sfitte. Le “Fonderie Pisano”, invece, sono nel limbo. “Tra color che son sospesi” tra moderne torri di cemento e muletti sporchi di sabbia di ghisa. Tra i maxi- store che vendono ogni cosa e le fabbriche d’un tempo che fu. Tra i salernitani che le fissano di sottecchi e quelli che - poco più di 120 - al mattino ne varcano la soglia per guadagnarsi il pane. Tra una città che non le vuole più ed un’altra che non le vuole affatto. «Eppure all’estero è tutta un’altra cosa», racconta l’ingegner Pisano. Sì, all’estero è tutto diverso: la lingua, il cibo, la cultura. «Macché! All’estero è tutta un’altra cosa per le “Fonderie Pisano”. All’estero ci aspettano col tappeto rosso». Davvero? «Siamo stati in Serbia e in Slovenia rivela Pisano - poco meno di due anni fa. Abbiamo parlato con gli amministratori locali, con i cittadini e con i sindaci. Lì ci hanno detto “Venite. Vi diamo il terreno che preferite. E non lo pagate. Neppure la corrente. Nemmeno i contributi”». E allora perché non vanno via, questi Pisano? Risponde un altro Pisano, anche se, nei capannoni, lui, camicia di jeans nera coi bordi delle maniche ripiegati, un cognome non ce l’ha.

Per i «collaboratori » (così li chiamano, i 120 e passa dipendenti), lui è Flaviano. Stop. Flaviano-e-basta prende una coppa dell’olio in ghisa, e struscia il dito contro il codice alfanumerico in rilievo: «Vede cosa c’è scritto qui?», chiede indicando le prime due letterine. Sì, c’è scritto “PS.” «Appunto, “Pisano Salerno”. Noi siamo legatissimi a Salerno». E l’ingegnere gli fa eco: «Le ragioni sono tre. Uno: siamo legati al nostro territorio. Due: i nostri collaboratori sono con noi da una vita, e non potremmo portarli mica tutti fuori. Tre: la fonderia è un’attività industriale, ma ha un’elevatissima componente artigianale». Un brand made in Italy . Di generazione in generazione: i capannoni mostrano i segni del tempo. Di padre in figlio. E Fratte è cambiata. E le “Fonderie” pure: per le rifiniture del materiale, i camion devono attraversarla, via dei Greci. È un’altra Salerno.

«Sa che nel mondo della ghisa solo la Germania è più forte dell’Italia?». No, non lo sapevo. Flaviano mostra dei chiusini impilati l’uno sopra l’altro. Attorno c’è il cellophane, sono pronti per la consegna. «Ormai la produzione di questi qui è un’attività marginale - spiega - ma in Italia, prima delle “Luci d’artista”, Salerno la conoscevano anche perché il nome della nostra città compare bello grosso sopra tutti questi cosi qui - soggiunge Flaviano, indicando i prodotti - che si trovano nelle più importanti realtà del nostro Paese». I tombini, il settore stradale: era l’80 per cento del “made in Pisano”. «Ora siamo al 15 per cento». Salerno è cambiata, ma le Fonderie pure. Ora il grosso della produzione riguarda il settore meccanico. Soprattutto i trattori. «I telai - spiega Ciro Pisano - sono opera nostra. Realizziamo le coppe d’olio, i volani, le “valigette” et similia . Lavoriamo sul primo montaggio: i nostri prodotti poi vengono installati negli stabilimenti francesi, austriaci ed inglesi del gruppo “Cnh”, leader mondiale dei trattori. E nelle fabbriche tedesche e italiane del gruppo “Same”».

A Fratte, da un bel po’, hanno ripreso a lavorare a pieno regime. È un andirivieni d’operai. Fa caldo, ma è eccessivo soltanto se t’avvicini al forno. Alle “Pisano” ce ne sono di tre tipi: il cubilotto (un tino ricolmo di carbone e metallo, ed è di lì che cola la ghisa liquida), quello elettrico e quello a metano. Flaviano, uno che dice che «quando entri in una fonderia non vuoi uscirne più», che «t’incanti ogni volta a guardare il ferro vergine che diviene prodotto finito» e che «è un po’ come una bella donna, un po’ come una droga», mostra l’intera catena di montaggio: l’argilla nella sabbia silicia, la forma creata. E il vuoto nella terra, e la ghisa liquida colata, che poi si raffredda: «Un po’ come quando, da bambini, si giocava a fare i castelli in riva al mare, e se la sabbia era troppo asciutta non si formava un bel nulla e se era troppo bagnata non usciva dalle forme». Flaviano chiosa: «Qui giochiamo con la sabbia. La sabbia silicia». Sì, però nella Valle dell’Irno i valori di mercurio sono alle stelle. «E noi cosa c’entriamo?», chiede Ciro Pisano. «Sa che, in Europa, in nessuna fonderia si misura il mercurio». Ed è sbagliato? «No, semplicemente una fonderia di questo tipo non produce mercurio. Neppure noi lo avevamo mai misurato, negli anni passati». Prima dell’allarme Valle dell’Irno. Prima dello Stu- dio “Spes”, che le autorità hanno tenuto a lungo a prender polvere nei cassetti, prima che i giudici ordinassero di tirar fuori le carte. A via dei Greci, a luglio d’un anno fa, i tecnici dell’Arpac hanno detto che va misurato il mercurio. «Io non capivo neppure il perché, ed ho risposto: “Ma perché? Abbiamo la febbre?”».

Sono arrivati gli uomini dell’Agenzia regionale. Pisano agita i verbali “made in Arpac”. I valori di mercurio allo sbocco dell’altoforno? Nel primo caso, il 3 novembre del 2020, erano inferiori a quota 0,001 milligrammi per normal metro cubo (a fronte d’un valore limite di 0,2), nella seconda circostanza - dieci giorni dopo - s’attestavano sullo 0,00035. Nei rapporti di prova della ditta accreditata che s’occupa del monitoraggio ambientale quotidiano nelle fonderie, ci si schioda raramente dallo 0,0005. «E potete scaricare i rapporti di prova dal nostro sito ufficiale, matrice per matrice. Abbiamo installato un misuratore in continuo - chiosa Pisano - che analizza i fumi in uscita dal camino principale». Gli sfreccia davanti un muratore, cazzuola alla mano. «Stanno costruendo un muro - spiegano gli imprenditori - per i pannelli fonoassorbenti, così facciamo meno rumore». Un pacchetto di interventi per la mitigazione ambientale: «Abbiamo raddoppiato le vasche per la decantazione dell’acqua di dilavamento dei piazzali, ché di produzione non ce ne sono. E non finisce più nell’Irno: va nella condotta comunale e di lì al depuratore ». I cattivi odori? «C’è una torre di reazione a valle dei fumi. Ci buttiamo dentro i carboni attivi».Come con una lavastoviglie. «Interventi da 1,5 milioni di euro. Solo per continuare a lavorare, in attesa di delocalizzare. Con le autorizzazioni, basterebbero due anni per andar via». A due passi dai pannelli fonoassorbenti che verranno, sono adagiati due forni elettrici nuovi di zecca: «Non li abbiamo installati ancora. Vogliamoportarli a Buccino, in quella che sarà la fonderia più moderna d’Europa ». Nel cuore del “Cratere”. «Abbiamo comprato un lotto lì: ce n’erano 15 in disuso. Abbiamo vinto un bando Asi, abbiamo speso 3 milioni di euro. È nostro, quel terreno, ma il Comune non ci consente neppure d’andare a tagliare l’erba. Non ci rilasciano nemmeno i certificati. Solleciteremo, poi andremo in Procura. Siamo i primi a voler andare via. Abbiamo voglia di fare industria. Di ripartire da Buccino, con nuove assunzioni». È l’eterna intifada dell’industria: «E i sindaci fanno come Cetto La Qualunque, dicono quello che la gente vuol sentire, e allora le fonderie inquinano». Non è così? «Abbiamo tantissimi difetti, ma rispettiamo le norme. Paghiamo lo scotto del discorso sull’Ilva, che tanto male ha fatto alla siderurgia, ma noi siamo un’altra cosa». Cioè, una fonderia di seconda fusione. In “tecnichese”, vuol dire che a Taranto si parte dai minerali per ottenere il ferro vergine. A Salerno si lavora il ferro vergine per ottenere ghisa. «E noi ne produciamo circa 30mila tonnellate l’anno. L’Ilva? Ben 12 milioni di tonnellate ». Non ci stanno, i Pisano, a passar per seminatori di morte: «Abbiamo analizzato gli impatti cumulativi nell’arco di 500 metri. Se sparissero le fonderie, l’impatto si ridurrebbe del due per cento. Abbiamo perfino esaminato i nostri collaboratori: l’aspettativa di vita è molto più elevata ».

A gennaio “don” Guido ha festeggiato 90 anni. Eppure le fonderie dividono Salerno: «Nel 2014 fatturavamo 35 milioni, ora siamo a 17 milioni. Siamo sotto attacco. Eppure, in ogni parte d’Italia, quando si parla di “Pisano” ci si alza in piedi. Qui ci dicono che spargiamo il mercurio che neanche produciamo. Forse un giorno c’accuseranno pure di diffondere il Covid...». I fonditori restano in attesa. «La cosa più semplice sarebbe mandare tutti via e costruire subito case, altre case». Potrebbero farlo, i Pisano: «Il Puc ce lo consente, e quando andremo via chiameremo un buon costruttore perché realizzi qualcosa di bello. Ma non è cosa nostra: noi vogliamo fare ciò che sappiamo. L’impresa, la fonderia ». In attesa di lasciare la Valle del mercurio, in attesa d’uscire dal limbo, tra “color che son sospesi” tra le fabbriche e i grattacieli. In attesa d’apparire meno brutti, sporchi e cattivi.