I volti dei migranti: «Ora ci sentiamo italiani»

Storie di fughe dalla morte e di famiglie spezzate, ma dalla scuola rinasce la speranza

SALERNO. Paul arriva dalla Costa d’avorio. Ha 18 anni, e nello spazio di una bomba ha perso tutto: padre, madre, il fratello di otto anni, la sua vita di prima. Il suo è uno dei volti del’immigrazione che Salerno ha consegnato ieri mattina al ministro Cécile Kyenge, quei volti che a lei piacerebbe vedere in uno spot natalizio, «per augurare buone feste all’Italia, da Salerno con amore». Al convegno nel salone dei marmi parlano soprattutto le testimonianze, i racconti di chi è scappato dalla guerra e dalla fame ma anche di chi l’Italia l’ha scelta per una migrazione culturale, che aiutasse a coltivare i propri interessi. Sono le «tante sfaccettature» sottolineate dal ministro. Paul è una di queste, era il 2010 quando un ordigno ha spazzato via la sua casa e lui è riuscito a lanciarsi da una finestra: «Sono stato in ospedale, poi nelle carceri libiche, ho creduto di morire. Volevo andare in Tunisia, ma mi hanno caricato su un barcone con 250 persone e portato a Lampedusa. Mi manca la mia Africa, però sono contento di essere qui, al sicuro, e vorrei diventare presto cittadino italiano e di Salerno».

Una famiglia ce l’ha, ma spezzata in due, la siriana Cristine, che in Italia è arrivata un anno fa per curare al Gaslini di Genova la figlioletta: «Eravamo andati a Beirut, dovevano operarla dopo tre mesi, ma poi la guerra ha fatto slittare i tempi fino a un anno. Siamo riusciti a uscire dalla Siria con un visto per cure mediche, ma valeva per un accompagnatore soltanto e mio marito è rimasto lì. Non sono qua perché l’ho scelto, sono qua perché ho bisogno di un posto sicuro per mia figlia».

Cristine ha chiesto asilo, e ora è a Salerno nell’ambito di un progetto dell’Arci. Anche Sade, Paese di provenienza la Nigeria, ha chiesto aiuto, ma è riuscita a farlo soltanto dopo sette anni di schiavitù, venduta per pagare il debito che aveva contratto per fuggire dalla miseria. «Sono arrivata nel 2003 – racconta – Chi mi ha portato mi ha tolto i documenti per temermi sotto ricatto e sfruttarmi, non avevo più identità, non esistevo più. Ho subìto ogni genere di violenza, volevo scappare ma avevo paura per quello che poteva accadere a me e alla mia famiglia in Africa. Poi finalmente ho chiesto aiuto, ora sto studiando e sto cercando di costruirmi un futuro. Con il permesso di soggiorno inizio a coltivare la speranza di trovare un vero lavoro». È il sogno di un’integrazione possibile, che sembra più vicina dopo che a prendere la parola, nella sala gremita del Comune, è la salernitana Roberta, studentessa di quinto anno al liceo linguistici Alfano I. Spiega che per la sua classe non è stato un problema integrarsi con quel ragazzino arrivato da El Salvador per seguire le esigenze di lavoro del padre. Che anzi lui è sempre attorniato da ragazze e che, anche se magari all’inizio non è stato tutto rose e fiori, adesso si sente italiano quanto lei. «Tra noi ragazzi funziona così – spiega – senza etichette. Lui ha arricchito le nostre conoscenze e, soprattutto, noi come persone. Vogliamo essere noi di esempio agli adulti. Anche se sappiamo che fuori c’è un’altra società, una società che scaglia accuse, o fa troppo spesso l’indifferente». (c.d.m.)

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