Ecco come nasce in città la borghesia “camorrista”

Per Umberto Santino fondatore del Centro di documentazione Impastato «è quel rapporto che si perfeziona su due elementi: interessi e codice culturale»

SALERNO. Quando Brian De Palma raccontò sul grande schermo quella sottile linea che le inchieste romane hanno virgolettato in “terra di mezzo” di tolkieniana memoria, era il ’93. Carlito Brigante era l’uomo di strada, il boss, il re dello spaccio e David Kleinfeld il suo avvocato, quello che gli aveva fatto ridurre la pena e lo aveva tirato fuori di prigione. Ora sedevano allo stesso tavolo del bar, mischiandosi e mischiando quei due mondi distanti ma così contigui. Ventidue anni dopo quel capolavoro che è “Carlito’s way”, a Salerno la Dda mette le mani sull’intreccio tra avvocati e malavita organizzata che insieme combinavano incidenti fasulli per truffare le assicurazioni. Nulla di nuovo. Pippo Fava lo aveva già detto più di 30 anni fa (ed è stato ammazzato) che la mafia era altro da quella rappresentata dai media. Che c’era un livello (notabili, imprenditori, professionisti) accanto se non sopra quello dei “boss” che controllano il territorio. Insomma quello che Umberto Santino, fondatore del Centro di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo teorizzò definendola “borghesia mafiosa”.

E ora all’improvviso si scopre che questa “broghesia” collusa c’è anche qui. Certo non è un mistero, ma un fatto. Ed è quella sottile linea che come spiega Anna Garofalo coordinatrice provinciale di Libera «diventa un problema di consapevolezza da una parte e di riconoscibilità dall’altra». Cioè «il professionista non ha contezza che quello che sta facendo è un reato di camorra e tu non sai che stai frequentando un camorrista». Ed eccola quella “terra di mezzo”, quella che la Capacchione, giornalista e senatrice Pd, consegnò a Roberto Saviano deluso dalla sentenza che ha condannato l’avvocato Michele Santonastaso per le minacce a loro rivolte in aula nel corso del processo Spartacus. «Il fatto - scriveva la Capacchione in una lettera al Messaggero - è che giornalisti e opinionisti, a partire da me, si affannano a parlare dell’avvento della borghesia mafiosa che ha soppiantato i vecchi boss con la coppola storta e la lupara; ma poi, quando si scontrano con un vero borghese mafioso, con un professionista prestato alla mafia non lo riconoscono».

Anche questi professionisti hanno la «patente di mafiosità» e «il terreno su cui si perfeziona il rapporto sono: gli interessi e il codice culturale» spiega Umberto Santino. E se gli interessi sono quelli economici, quelli culturali sono essenzialmente «la necessità di avere affiliati specializzati, professionisti. Senza questi rapporti - continua Santino - i clan diventerebbero numericamente irrisori e perderebbero la loro efficacia criminale e di radicamento negli affari». «I clan avvicinano i professionisti spesso non solo perché sono i più bravi, ma perché sanno che possono offrire merce di scambio - commenta Corrado De Rosa, psichiatra e scrittore - Se un mafioso avvicina un medico, per esempio, si informa, capisce se è bravo. Ma se deve chiedergli qualcosa di grosso, che non sia solo una prestazione semplice, cerca di capire se quel medico ha passioni, interessi, vizi, in modo da potersi porre in una logica di scambio. Che può diventare ricatto».

Ed i vizi borghesi elevati a sistema di consuetudine in una città che non ha la ricchezza per poterli mantenere, diventano quell’humus nel quale sprofondare i piedi come su bagnasciuga. La droga ad esempio; il gioco; i debiti diventano moneta di incontro e di acquisto di favori.

E qui, a Salerno, c’è un terreno umido di luoghi e circostanze dove mescolarsi, conoscersi e frequentarsi diventa facile, semplice, immediato. Sono «quei luoghi che sembra non ci sia nulla e invece c’è» dice la Garofalo. Ma il sistema «è più complesso - commenta l’avvocato Mariano Casciano - e nel caso di specie gli avvocati non sono l’asse attorno al quale ruota tutto». Una rete più complessa di collusione, come quella che a Napoli, ad esempio, riguarda i falsi invalidi.

«Qui la truffa i clan la utilizzano come sistema per pagare le famiglie dei carcerati, per costruirsi carriere sanitarie e per accresce il proprio prestigio sociale sul territorio» aggiunge De Rosa. E in un sistema così ambiguo e per certi versi irriconoscibile «ti accorgi che vent’anni di impegno alla legalità non sono bastati a cambiare le cose» commenta la Garofalo: «Come Libera ci poniamo il problema che il nostro lavoro non può essere più solo di testimonianza, ma diventa necessario lavorare sulla conoscenza dei territori. C’è la necessità di stabilire con le categorie professionali un “codice etico”, che impegni tutti a un comportamento corretto».

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